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“Daphne Byrne”: la recensione del fumetto gotico di Marks e Jones


daphne byrne recensione - fumetto hill house

Spero che la recensione di “Daphne Byrne” riesca a portarmi bene: da oggi in poi, mi piacerebbe riuscire a dedicare un piccolo spazio, qui sul blog, anche alle graphic novel e ai fumetti di ogni nazionalità.

Perciò, dita incrociate, e speriamo di portare avanti questo proposito per tutto il resto dell’anno!

“Daphne Byrne”, serie a fumetti di Laura Marks (responsabile dei testi) e Kelley Jones (autore delle illustrazioni), fa parte della collana horror “DC Hill House”. Il progetto, supervisionato da Joe Hill, comprende, al momento, un’altra mezza dozzina di titoli.

Ricordiamo, fra tutti, il delizioso “A Basketful of Heads: Una Cesta Piena di Teste” e l’horror generazionale “The Dollhouse Family: La Casa delle Bambole”.

Ovviamente, non è necessario leggere l’intera collezione, per riuscire ad apprezzare i singoli volumi. Ogni libro della serie racchiude in sé, infatti, un episodio perfettamente autoconclusivo.

“Daphne Byrne” rappresenta, dal canto suo, un tripudio di inquietanti suggestioni vittoriane. La storia è abbastanza semplice (c’è chi l’ha descritta come una sorta di «”Carrie” ambientato nel diciannovesimo secolo»), ma si lascia leggere con piacere, distinguendosi soprattutto in virtà del disturbante immaginario demoniaco evocato dalle espressive tavole di Kelley Jones…


La trama

New York, diciannovesimo secolo.

La quattordicenne Daphne Byrne ha appena perso suo padre. Sua madre è sprofondata nelle grinfie di una probabile ciarlatana che continua a spacciarsi per medium, sperperando quel poco che resta delle loro dissestate finanze famigliari.

La situazione della ragazzina, già di per sé difficile, è resa ancora più nera dall’atteggiamento altezzoso delle sue compagne di scuola. Fra un attacco di bullismo e una litigata con sua madre Daphne continua a visitare la tomba di suo padre e a pregare per un futuro diverso, senza risultato.

Almeno fino a quando nella sua vita non irrompe un’ombra, lo spettro di un’entità pronta a ergersi in sua difesa.

A mano a mano che il demone inizia a stringere un legame particolare con Daphne, allarmanti fenomeni paranormali incontrollabili prendono a manifestarsi…


“Daphne Byrne”: la recensione

Quando, a fine lettura, ho provato a dare un’occhiata alle “credenziali” di Laura Marks, non sono rimasta particolarmente sorpresa da quello che ho trovato.

Sceneggiatrice televisiva di serie tv popolari (inclusi alcuni episodi di show molto amati dalla sottoscritta, tipo “Servant” o “The Expanse”…), ha esordito nel mondo del fumetto proprio grazie alla pubblicazione di questo volumetto.

In effetti, “Daphne Byrne” sembra rispondere, senza grosse deviazioni, a certe particolari logiche specifiche del mercato televisivo. Un sacco di fumo, qualche traccia di arrosto, un pizzico di tensione, tanto gore e un’estetica che emana un chiaro sentore di calderone fagocita-suggestioni, prodotto derivato di un intero filone cinematografico e di qualche progetto televisivo attentamente selezionato.

Non osa mai fare il passo più lungo della gamba, Laura Marks. La sua creatura offre al pubblico un paio d’ore di piacevole e brividoso intrattenimento; l’equivalente stampato su carta di una miniserie in sei episodi prodotta da Netflix, o da qualche altro colosso dello streaming.

Nulla di male in questo, beninteso. Anzi.

Ma sembra quasi doveroso riconoscere l’importanza del contributo di Kelley Jones, dal momento che i suoi disegni (genuinamente terrificanti) costituiscono il 90% di tutto ciò che permette a “Daphne Byrne” di coltivare una propria identità.


La schiavitù del corsetto

Dal canto loro, le tematiche trattate all’interno di “Daphne Byrne” (ribellione femminile e lotta al patriarcato, nel pieno dell’età più repressiva) offrono sicuramente un mucchio di spunti di riflessione interessanti.

Anche perché il dolore dell’eroina di Laura Marks ha un aspetto molto reale. Il suo senso di isolamento, la consapevolezza di essere “diversa” e praticamente carne da macello, agli occhi di un sistema sociale che non aspetta altro che di cibarsi di coloro che non godono di alcuna protezione, trovano senz’altro un terreno di suggestione molto fertile, all’interno della nostra sensibilità moderna.

In realtà, sospetto che, se soltanto al personaggio di Daphne fosse stata concessa una caratterizzazione meno standard e generica, il livello di coinvolgimento emotivo del lettore, soprattutto in determinati punti-chiave della narrazione, avrebbe avuto il potenziale di schizzare alle stelle!

Stesso discorso per l’ambiguo demone “tentatore” che si fa conoscere solo con il nome di “Fratello”.

Non serve aver mandato già l’intera bibliografia di Stephen King o Ira Levin, per riuscire a prevedere le sue azioni o quelle di Daphne: la loro storia scorre su dei binari talmente precisi, netti e lineari, che anche soltanto l’idea di ipotizzare un finale alternativo risulterebbe, probabilmente, una pura e semplice stravaganza.

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“She is a Haunting”: la recensione del libro horror di Trang Thanh Tran


she is a haunting recensione - Trang Thanh Tran

La recensione di “She is a Haunting” conterrà zero spoiler, un paio di crisi esistenziali, tanti fantasmi e una dose di riferimenti tutt’alto che ingiustificati a “Mexican Gothic” di Silvia Moreno-Garcia!

Il libro d’esordio di Trang Thanh Tran è uno degli horror YA più chiacchierati di questa prima parte dell’anno. Ne abbiamo sentito parlare sui social e nei siti specializzati; la sua pittoresca cover si è materializzata un po’ dappertutto; i paragoni con il leggendario “Incubo di Hill House” si sono sprecati…

A questo punto, ti starai forse chiedendo: ma ne sarà poi valsa la pena, di coltivare tutto quest’hype?

Cerchiamo di scoprirlo insieme! ;D


La trama

Per cercare di inserirsi, Jade Nguyen ha sempre dovuto mentire.

Non è mai stata abbastanza etero, abbastanza vietnamita o abbastanza americana per riuscire a trovare il suo posto senza problemi. La situazione non cambia quando, a causa di un disperato bisogno di denaro, decide di accettare la proposta di suo padre di trasferirsi da lui in Vietnam per un breve soggiorno di cinque settimane.

Jade non è in buoni rapporti con suo padre. Non lo vede quasi mai, tanto per iniziare. E, comunque, non riesce a perdonarlo per aver abbandonato la sua famiglia, quando lei era ancora soltanto una bambina.

Come se non bastasse, il genitore sembra letteralmente ossessionato dall’idea di riportare ai fasti di un tempo una vecchia casa decrepita risalente al periodo coloniale francese.

Ma Jade è determinata a stringere i denti, se questo significa ottenere da lui il denaro di cui ha bisogno per iscriversi all’università.

Dopo pochi giorni, però, la ragazza inizia a svegliarsi ogni mattina in preda alla confusione più totale. Ha come l’impressione che qualcosa si ostini a strisciare lentamente giù per la sua gola… E poi, Jade si imbatte nel fantasma di una bellissima sposa. Una presenza che continua a farle visita in sogno, recando un unico, criptico avvertimento: NON MANGIARE.

Quando suo padre e la sua sorellina si rifiutano di crederle, Jade decide di provare a spaventarli per convincerli a lasciare la casa, inscenando un’infestazione ectoplasmica tutta sua. In suo soccorso interviene Florence, la vivace nipote del socio in affari di suo padre… un aiuto molto gradito, che rappresenta, a sua volta, una grande fonte di distrazione.

 La casa, però, ha in serbo altri piani. Perché un’abitazione, dopotutto, è forte soltanto quanto coloro che sono disposti a infondere nuova linfa nelle sue ossa.

E questa casa non è disposta a rimanere sola un’altra volta, a nessun costo…



“She is a Haunting”: la recensione

Se la trama dell’opera d’esordio di Trang Thanh Tran fosse stata un po’ più incalzante, il ritmo un po’ meno pachidermico (e, magari, scandito da qualche colpo di scena in più) penso che sarei riuscita a innamorarmi perdutamente di questo libro.

Sotto molti punti di vista, infatti, “She is a Haunting” è un romanzo superbo. Può vantare un’atmosfera da brividi, tanto per cominciare, e una sensazione strisciante di costante paranoia che, a lungo andare, finisce per logorare i nervi del lettore nel più delizioso ed elettrizzante dei modi.

Contiene anche una delle migliori rappresentazioni dei disturbi d’ansia in cui mi sia mai imbattuta, soprattutto nel novero della narrativa fantastica per ragazzi. La lotta di Jade contro la sindrome della paralisi del sonno e i suoi martellanti pensieri intrusivi – miei nemici personali da almeno diciassette anni – risulta persuasiva, incalzante e dannatamente credibile, ragazzi!

Ma non è tutto.

Oltre ai temi del colonialismo, della diaspora e del senso di straniamento che deriva dal sentirsi tagliati fuori dalle proprie radici, “She is a Haunting” affronta benissimo anche l’argomento della repressione sessuale.

Nel farlo, ricorre a un immaginario cupo e disturbante, degno del popolarissimo “Mexican Gothic”, senza lesinare un paio di efficaci richiami al mondo del body horror.

I punti di contatto con il famoso libro della Moreno-Garcia non finiscono qui, ovviamente.

Basti pensare alla quantità di spore, insetti e parassiti che affollano le pagine del romanzo. Presenze malefiche e invisibili, che infestano l’aria quanto – e forse più – delle stesse presenze che si aggirano nei corridoi a tarda notte.

Evocate dal linguaggio elegante ed allusivo di Trang Thanh Tran, con il suo carico di sensualità a malapena trattenuta, e dall’energia sprigionata da un milione di tabù culturali perennemente sul punto di infrangersi…

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“Le Brave Ragazze Muoiono Prima”: brividi e adrenalina nel libro YA di Kathryn Foxfield


le brave ragazze muoiono prima - i Kathryn Foxfield - Newton Compton

Newton Compton porta in Italia il libro horror/thriller “Le Brave Ragazze Muoiono Prima” di Kathryn Foxfield.

A partire dal 28 aprile 2023, questo nuovo romanzo – descritto come una sorta di punto di incontro fra “So Cosa Hai Fatto” e “I Dieci Piccoli Indiani” – ti aspetterà in libreria.

In effetti, mi riesce difficile pensare che il titolo non rappresenti anche una strizzata d’occhi al famosissimo bestseller “Come Uccidono le Brave Ragazze” di Holly Jackson.

E il target di riferimento del libro di Kathryn Foxfield è sicuramente lo stesso. Anche “Le Brave Ragazze Muoiono Prima” sarà uno young adult, rivolto principalmente a una fascia di lettori compresa fra i 15 e i 18 anni…


“Le Brave Ragazze Muoiono Prima”: la trama

Qualcuno sta ricattando Ava.

Una persona che conosce i suoi segreti più oscuri, e che la costringe a recarsi presso un parco dei divertimenti abbandonato sul molo di Portgrave.

Ma, una volta lì, Ava scopre di essere soltanto la prima di dieci adolescenti, riuniti lì dallo stesso ricattatore misterioso e determinati a proteggere i propri segreti a qualsiasi costo.

Quando una nebbia inspiegabile inizia a ingoiare il molo, il gruppo si scopre tagliato fuori dal resto della città, nell’impossibilità di comunicare con il mondo reale. Così, mentre i ragazzi iniziano a rivoltarsi l’uno contro l’altro, Ava dovrà guardare in faccia la verità che l’ha portata in quel luogo e decidere fino a che punto è disposta a spingersi, pur di riuscire a sopravvivere.



Horror Bites

“Le Brave Ragazze Muoiono Prima” ha debuttato in lingua inglese nel 2020.

Si tratta dell’opera d’esordio dell’autrice britannica Kathryn Foxfield, appassionata fan di Agatha Christie e del Doctor Who.

Benché la Newton Compton insista a consigliare il suo nuovo acquisto a tutti i fan del mistery, una parte della trama sembrerebbe alludere a un twist sovrannaturale che, se confermato, potrebbe facilmente rappresentare la delizia di alcuni lettori, e una fonte di totale frustrazione per altri.

Dopotutto, la stessa Foxfield ha ripetutamente confermato di essere una sostenitrice sfegatata della saga letteraria horror “Point Horror”: una collana YA sulla falsariga di “Piccoli Brividi”, particolarmente amata dalle giovani lettrici degli anni Novanta.

Una nebbia misteriosa che avvolge un decrepito luna park, costringendo un gruppo di teenagers a confrontarsi con le proprie peggiori paure?

Mmm…

Non so cosa ne pensi tu, ma, secondo me, le premesse di questo libro gridano «R. L. Stine!» da un paio di miglia di distanza! ;D


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“Un fantasma in casa”: la recensione del film disponibile su Netflix


un fantasma in casa - recensione - netflix

Non so fino a che punto la mia recensione di “Un fantasma in casa” potrà aggiungere qualcosa a quanto già detto da tanti altri.

Per una volta, infatti, sento di poter concordare appieno con la maggior parte del pubblico e della critica internazionale: il film di Christopher Landon è un mezzo flop, un semplice prodotto “riempitivo” da propinare ai bambini nel corso di un’uggiosa domenica pomeriggio.

Non che manchino un paio di gag particolarmente riuscite, intendiamoci. Il cast è interessante, e sicuramente le dinamiche fra il giovane protagonista e il suo amico fantasma riescono a intenerire al punto giusto.

Eppure, nel complesso, trovo che “Un fantasma in casa” fallisca nell’unico compito che aveva il “dovere” di assolvere: divertire il pubblico, regalandogli un paio d’ore spensierate all’insegna di buoni sentimenti e magia…


La trama

La famiglia dell’adolescente Kevin (Jahi Winston) si è appena trasferita in una sinistra magione scricchiolante.

I Presley hanno avuto un po’ di problemi economici, ultimamente; soprattutto a causa delle ripetute (e improbabili) trovate “imprenditoriali” di Frank (Antony Mackie), il padre di Kevin.

Il giovane protagonista non riesce a perdonare ai genitori i continui fallimenti e gli inevitabili traslochi da un capo all’altro della nazione. Anche per questo, il suo rapporto con la famiglia e con i coetanei sta diventando sempre più teso e ricco di fraintendimenti.

Almeno fino a quando, vagolando di notte nella sua nuova casa, Kevin non si imbatte nel fantasma di uno stempiato (e smemorato) giocatore di bowling di nome Ernest (David Harbour).

Mentre Frank fa di tutto per sfruttare la presenza dello spettro a proprio vantaggio e trasformarsi nel nuovo divo di Internet, il nostro eroe decide di aiutare il povero Ernest a venire a capo delle misteriose circostanze che avvolgono la sua morte.

Malgrado le interferenze di una suadente presentatrice televisiva (Jennifer Coolidge) e di un’ex agente della CIA fissata con l’aldilà (Tig Notaro), fra i due sboccerà una bella storia di amicizia sovrannaturale.


“Un fantasma in casa”: la recensione

Per come la vedo io, il disperato tentativo di guadagnarsi un posto all’interno del collaudato filone “viva gli anni Ottanta!” finisce con il compromettere pesantemente l’identità del film.

Di Landon avevo apprezzato tanto le commedie horror “Auguri per la tua morte” e “Freaky”. Un po’ meno, per usare un eufemismo, mi aveva convinto la sceneggiatura del film “L’Esorcismo della mia migliore amica” (vale però la pena ricordare che, in quel caso, Landon era coinvolto soltanto nelle vesti di produttore esecutivo).

Non saprei dire che tipo di speranze covassi nei confronti di un progetto come “Un fantasma in casa”. Dopotutto, il titolo, di per sé, risulta abbastanza autoesplicativo, no?

Eppure, considerando i precedenti del regista/sceneggiatore, probabilmente speravo in un film con un pizzico di… personalità in più, se riesco a spiegarmi?

Invece, devo ammettere che lo scarso senso dell’umorismo e la debolezza del plot mi hanno spiazzato. Per non parlare dell’incapacità dello script di armonizzare spunti che sembrano tratti da una mezza dozzina di fonti di ispirazione diverse.

In realtà, secondo me, le gag più divertenti sono quelle che inseguono un trend tutto contemporaneo: prendere allegramente in giro il folle mondo dei social!

Ma fino a che punto è possibile continuare a tifare per i protagonisti di un film che non sembra in grado di scegliere fra la necessità di portare fino in fondo il proprio (demenziale) concept, e l’inspiegabile tentazione di prendersi troppo sul serio?

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“Sundial”: la recensione del fenomenale libro horror di Catriona Ward


sundial recensione - catriona ward

La recensione di Sundial” è dedicata a tutti i fan di Shirley Jackson, Stephen King e Sarah Pinborough eventualmente in ascolto.

In questo articolo parleremo, infatti, di un horror psicologico ipnotico, spietato, “duro” e infarcito di colpi di scena, ambientato sullo sfondo di un deserto tanto ostinato, quanto imprevedibile.

Ancora una volta, Catriona Ward – autrice del magnifico “La casa in fondo a Needless Street” – intesse un intreccio magnetico e avvincente, mescolando abilmente tutti gli “ingredienti” che, ormai, rappresentano il suo marchio distintivo: un impeccabile uso del narratore inaffidabile, un’ambientazione crudele, un ritmo da infarto e un cast di personaggi assolutamente indimenticabile…


La trama

Rob ha paura di sua figlia.

Callie, infatti, colleziona piccole ossa e sussurra cose incomprensibili ai suoi amici immaginari, e Rob teme ogni giorno che la sua strana bambina possa fare del male a Annie, la sua sorellina.

Forse perché Rob vede in Callie un’oscurità che le ricorda la famiglia che si è lasciata alle spalle… quella che ha fatto del suo meglio per dimenticare.

Dal momento che non vede altro modo per tenere Annie al sicuro, Rob decide quindi di portare Callie a Sundial, la sua casa d’origine, nel profondo del deserto del Mojave.

Una volta lì, dovrà compiere una scelta terribile

Callie ha paura di sua madre.

È da un po’ che Rob ha cominciato a guardarla in modo strano. A raccontarle dei segreti, relativi al suo passato, che sembrano disturbarla ed elettrizzarla al tempo stesso.

Ma il punto non è nemmeno questo, in realtà.

Perché madre e figlia sono consumate da un sospetto atavico: e se soltanto una di loro fosse destinata a lasciare Sundial sulle sue gambe?



“Sundial”: la recensione

Nei libri di Catriona Ward, il mondo antico non è mai troppo lontano da quello moderno

Dopotutto, non c’è patina di civiltà, non c’è barriera culturale che tenga: sotto la pelle, ogni uomo (e ogni donna) ha il potenziale che gli/le serve per ritornare a essere una bestia feroce.

Una creatura selvaggia, incontrollabile, che ulula alla luna ogni notte e paga il suo tributo di sangue agli antichi dei nell’unico modo che conosce: attraverso un sacrificio di anime e corpi.

Se hai letto la mia recensione di “Little Eve” – pubblicata qui sul blog lo scorso luglio – sai già che reputo Catriona Ward una delle voci più originali, sorprendenti e promettenti del panorama gotico internazionale. Non per niente, stiamo parlando dell’autrice che è riuscita ad aggiudicarsi, fra le altre cose, il British Fantasy Award per il miglior romanzo horror per ben tre anni consecutivi!

“Sundial”, dal canto suo, è un libro che parla di mostri, letterali e simbolici, e delle mille forme che il Male può assumere su questa terra; ma anche di infanzia rubata e di complicatissimi rapporti famigliari, concentrandosi in modo particolare sul tormentato legame fra sorelle e su quello fra madre e figlia.

Un vero e proprio giro di giostra negli inferni della mente; un tour de force destinato a evocare in chi legge un carico di angoscia e palpitazioni senza precedenti.

Perché le due voci narranti alternate – quella di Rob, la protagonista; e quella di sua figlia maggiore, la problematica Callie – tendono a conficcarsi nella tua pancia come le zanne di un cane selvatico, e a non lasciarti alcuna possibilità di scampo…


Tutte le famiglie infelici sono uguali, ogni famiglia pazza è pazza a modo suo…

I segreti che queste due donne si trascinano dietro sono come pietre tombali; l’eco di una sinistra maledizione famigliare, forse, che affonda le radici più in profondità di quanto chiunque possa sospettare.

Gran parte della narrazione di “Sundial” si concentra, quindi, su una linea temporale passata (?) e sfasata, che continua a sovrapporsi a quella attuale senza apparente soluzione di continuità, tracciando una sorta di spirale pronta a fagocitare tanto i personaggi, quanto il lettore.

L’atmosfera surreale (e alienante) del deserto ammalia, incanta, acceca e rapisce, costringendo le due protagoniste a fare i conti con lo stesso paesaggio (interiore) che rispecchia i loro trascorsi.

Dopotutto, quando il sole rovente e la polvere che ti si infiltra nei polmoni sono i tuoi unici punti di riferimento, fino a che punto riuscirà a spingersi la tua bussola morale?

Quanto tempo impiegherà la tua psiche a lasciarsi corrompere dalle stesse intemperie che erodono quotidianamente le rocce, i dirupi e le montagne?

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“Goodnight Mommy”: la recensione del film horror disponibile su Prime Video


goodnight mommy recensione - remake

Non pensavo che mi sarei trovata a scrivere una recensione di “Goodnight Mommy” nel 2022; in parte, perché ignoravo che Hollywood avesse messo in cantiere un remake, una nuova versione del terrificante film del 2014 diretto da Veronika Franz e Severin Fiala.

Invece, la pellicola di Matt Sobel è sbarcata su Amazon Prime Video da pochi giorni, giusto in tempo per la tradizionale e imminente maratona annuale halloweeniana.

Ora…

Molti critici hanno descritto il film come “inutile” e “non necessario”, e non sarò certo io a sostenere il contrario.

Dopotutto, cercare di paragonare il remake all’originale può concludersi soltanto in un modo: vale a dire, attribuendo il giusto credito alla schiacciante superiorità del “Goodnight Mommy” austriaco.

Tuttavia, mi rendo anche conto del fatto che sto parlando da fan decennale del genere, e che di sicuro non tutti gli abbondati Prime Video avranno avuto la possibilità di ammirare il piccolo cult di Franz e Fiala.

In realtà, questo remake riesce a regalare diversi momenti genuinamente inquietanti e spaventosi.

Si capisce, l’opera di Sobel non è neanche remotamente ambigua, brutale o disturbante quanto la versione originale! Soprattutto perché la (tiepida) sceneggiatura lascia parecchio a desiderare…

Tuttavia, ritengo che l’ottima interpretazione di Naomi Watts, combinata a un paio di scene dal taglio decisamente luciferino, sia comunque in grado di giustificare il tempo speso per la visione…


La trama

I piccoli Elias (Cameron Crovetti) e Lukas (Nicholas Crovetti) si recano in visita dalla madre (Naomi Watts), presso un’isola località di villeggiatura.

I bambini non vedono la donna da diverso tempo, per cui restano molto stupiti nel ritrovarsi davanti una mamma bendata e sulla via di recupero, ancora tormentata dai postumi di un complicato intervento di chirurgia estetica.

Non che ci sia tantissimo di cui meravigliarsi, in realtà: dopotutto, la loro madre è sempre stata un’attrice piuttosto famosa e, come tale, costretta a sottoporre di continuo il suo aspetto a tutti i piccoli aggiustamenti del caso.

Tuttavia, nel giro di poco tempo, i ragazzi cominciano a intravedere qualcosa di profondamente sinistro nell’atteggiamento della donna.

È come se la mamma affettuosa, premurosa e piena di energie che Elias e Lukas conoscevano fosse completamente svanita, assorbita da quelle fasce spaventose che le celano costantemente il viso.

Al posto di quella genitrice amorevole sembra aggirarsi, adesso, una creatura isterica, fredda e collerica; qualcuno che ha poco a cuore il suo legame con i figli e che, anzi, a volte sembra a malapena in grado di tollerare l’idea di guardarli.

Una donna che non ha paura di lasciarsi andare a esplosioni di violenza imprevista, o di ricorrere a brusche punizioni corporali.

Che cosa succedendo alla madre di Elias e Lukas?

Possibile che sia stata… sostituita?

Ma da chi?

Chi è la sconosciuta – persona o creatura – che sta cercando di impersonarla, e per quale motivo ha deciso di farlo?


“Goodnight Mommy”: la recensione

Come dicevo, sospetto che, nel caso di questo film, il pubblico si dividerà nettamente in due squadre: quelli che hanno visto l’originale, e quelli che non avevano mai sentito parlare di questa storia.

Penso che il livello di gradimento sia destinato a lievitare abbondantemente nel secondo caso; anche se, a onor del vero, bisogna ammettere che il “Goodnight Mommy” americano resta un prodotto di intrattenimento abbastanza dozzinale.

Una rielaborazione letterale e poco stratificata della vicenda narrata all’interno della pellicola austriaca, peraltro disposta a rinunciare ai suoi momenti di scioccante crudeltà praticamente senza colpo ferire.

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“My Best Friend’s Exorcism” (recensione): amiche e demoni nel film horror di Prime Video


my best friend's exorcism recensione film

Qualcosa mi dice che scrivere la recensione del film “My Best Friend’s Exorcism” sarà un compito più doloroso del previsto.

In parte, perché ho da poco finito di leggere lo strepitoso romanzo di Grady Hendrix; una commedia horror dai toni energici e sferzanti, con cui ho sviluppato un legame emotivo particolare.

Ma anche perché il film di Damon Thomas (disponibile sul servizio streaming Amazon Prime Video) si è rivelato un adattamento un po’ piatto, e decisamente vigliacco!

L’ennesima sviolinata in chiave matusa&ottusa agli anni Ottanta, purgata di ogni minimo accenno di satira sociale e di ogni graffiante trovata anticonformista escogitata da Hendrix.

Una pellicola anonima e dimenticabile, insomma; di quelle che si lasciano guardare ma non ricordare, e che si ritrovano, loro malgrado, a incarnare il peggio che il classico buonismo commerciale hollywoodiano abbia da offrire…


La trama

Abby (Elsie Fisher) e Gretchen (Amiah Miller) sono due liceali amiche del cuore: abituate a condividere tutto, e pronte a mettere da parte ogni differenza scaturita dai loro rispettivi stili di vita.

Un giorno, Abby e Gretchen raggiungono un gruppetto di amici presso una casa sul lago e assumono delle sostanze stupefacenti di dubbia provenienza.

Nei dintorni, però, si erge un misterioso rudere abbandonato. La leggenda locale vuole che al suo interno, anni prima, un’altra adolescente sia stata sacrificata in nome di Satana.

Incuriosita, Gretchen decide di esplorare la casupola, chiedendo prontamente ad Abby di accompagnarla.

Tuttavia, all’interno della costruzione si nascondono strane forze maligne, pronte a cospirare per separare le due amiche e avvolgere Gretchen nelle loro spire.

Tant’è che, a partire da quel momento, Gretchen cambia completamente atteggiamento e diventa collerica, imprevedibile, vendicativa e capricciosa.

Abby è senza parole. Che cosa è successo alla ragazza dolce e gentile che l’ha sempre supportata e aiutata nei momenti di difficoltà? Perché, tutt’a un tratto, sembra quasi che Gretchen si diverta a fare del male alle persone?

E com’è possibile che un culturista cattolico con il pallino per la lotta agli spiriti del Male (interpretato da Chris Lowell) riconosca in Gretchen la presenza di un’influenza oscura e pericolosa?


“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione del film

Intendiamoci: il film horror di Damon Thomas non è il peggior adattamento di un libro molto amato che io abbia mai visto. Non è neanche il migliore e, di sicuro, non è il più ispirato, il più originale o il più ambizioso.

In realtà, il livello delle interpretazioni è piuttosto buono, anche se Chris Lowell (“Glow”, “How I Met Your Father”…) mi è sembrato l’unico in grado di rendere giustizia al proprio personaggio.

I suoi exploit da esorcista della domenica, infatti, riescono a strappare un paio di risate senza alcuna fatica, incarnando alla perfezione quel perfetto connubio fra ingenuità, fervore e dabbenaggine richiesto dall’ambientazione.

Ma il fatto che la sceneggiatura preferisca volare basso, e depotenziare il significativo apparato metaforico imbastito da Hendrix, gioca senz’altro a detrimento della qualità complessiva della pellicola…

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“Il Diavolo in Ohio”: la recensione della miniserie disponibile su Netflix


il diavolo in ohio - recensione - banner

Ha senso scrivere una recensione de “Il Diavolo in Ohio”, una delle miniserie più mediocri e imbarazzanti che Netflix abbia mai prodotto?

Bè, dipende.

In realtà, ritengo che la sceneggiatura dello show di Daria Polatin sia praticamente una sorta di “Guida Non Ufficiale alla Scrittura di Storie che Non Funzionano”.

Un utile “strumento” che gli aspiranti autori potrebbero consultare, in caso di bisogno, per accertarsi di non stare imboccando lo stesso, pericoloso sentiero verso lo sfacelo.

Voglio dire: personaggi imbecilli, un’ambientazione generica, archi narrativi insensati, e un tripudio di colpi di scena che non sarebbero in grado di sorprendere una cara nonnina cresciuta a pane e “Cento Vetrine”?

Benvenuto nella ridente e verde Terra dei Cliché, amico mio!


La trama

Suzanne (Emily Deschanel) è una psicologa che lavora in ospedale, a stretto contatto con le vittime di abusi domestici e con tutti quei pazienti affetti da un trauma profondo.

Un giorno, arriva in corsia una ragazzina dall’aspetto lacero e sanguinante. Dopo qualche tentennamento, Suzanne riesce a spalancare una breccia nelle difese della giovane, e a scoprire che il suo nome è Mae (Madeleine Arthur).

A quanto pare, la ragazza è stata costretta a fuggire dalla sua famiglia, per cercare di sottrarsi a un sanguinario culto di adoratori di Lucifero.

A poco a poco, Suzanne comincia ad affezionarsi sempre di più a Mae, una ragazzina dolce e gentile che non ha nessun al mondo, e che si fida soltanto di lei.

La psicologa decide, quindi, di richiedere ufficialmente la custodia temporanea di Mae, nella speranza di aiutarla a guarire dalle sue ferite emotive e raccogliere prove contro gli uomini e le donne crudeli che l’hanno tenuta prigioniera.

Ma, non appena Suzanne porta a casa Mae, scopre che suo marito e le sue tre figlie non sono per niente felici di questa improvvisa convivenza forzata


“Il Diavolo in Ohio”: la recensione

In realtà, c’è una cosa che sono riuscita ad apprezzare de “Il Diavolo in Ohio”: il modo in cui il plot riesce a “usare” il trauma sepolto nella memoria di Suzanne (il suo “fantasma”, per ricorrere a una terminologia presa in prestito da K. M. Weiland…) per giustificare e motivare le azioni spericolate e anticonvenzionali intraprese dalla protagonista nel corso degli 8 episodi.

Il singolare e intenso legame che si viene a creare fra la psicologa e Mae (di gran lunga il personaggio più affascinante della serie) emana un sentore di transfert su cui qualsiasi psicanalista amerebbe soffermarsi a indagare.

E c’è da dire che la sceneggiatura, per i primi 3 o 4 episodi, riesce a giocare bene con le sfumature e le zona d’ombra innescate da questa simbiotica (e problematica) relazione.

Cioè, magari non con lo stesso livello di empatia e fascinazione magnetica ostentata da pellicole potenti come, chessò, “Ultima Notte a Soho”… ma, comunque, bene abbastanza da rendere piacevole e interessante la visione.

Bè…

Almeno fino a quando un’ondata di finto moralismo medio-borghese, in puro stile ABC Family, non arriva a fare scempio dell’arco trasformativo di Suzanne, POLVERIZZANDO quel minimo sindacale di credibilità che la storia era riuscita miracolosamente a conservare.

L’ultimo atto, in effetti, si rivela abbastanza prevedibile da gettare un lampo rivelatore tanto sulla fragilità della premessa, quanto sulla natura fortemente derivativa del progetto.

Se hai già visto “Il Diavolo in Ohio”, probabilmente avrai notato, ad esempio, un certo parallelismo fra lo show targato Netflix e una famosa scena di una grandiosa serie-evento di qualche anno fa chiamata “Sharp Objects”.

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“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione del libro horror di Grady Hendrix


my best friend's exorcism recensione - grady hendrix

In America, i lettori appassionati di horror sanno che “My Best Friend’s Exorcism” di Grady Hendrix è un imperdibile classico moderno del genere.

La più divertente, folle, epica, commovente commedia dark sugli esorcismi che sia mai stata scritta!

Ne avevo sentito parlare spesso, ma, per un motivo o per un altro, mi ero sempre ritrovata a rimandare il momento della lettura. Almeno fino a quando non saputo del suo omonimo adattamento cinematografico, e dell’ imminente sbarco della pellicola sul servizio streaming Amazon Prime Video.

È stato allora che ho capito: era finalmente arrivato il momento di recuperare il romanzo.

E alla buon’ora, ragazzi!

La verità?

Non sapevo cosa mi stavo perdendo…


La trama

È il 1988.

Abby e Gretchen hanno appena cominciato il secondo anno di liceo. Sono migliori amiche sin dai tempi delle elementari, abituate a fare insieme qualsiasi cosa e ad essere l’una il punto di riferimento dell’altra.

Ma una sera, durante un festino finito male, Gretchen si perde nella foresta e rimane dispersa per una notte intera.

Quando torna indietro, l’amica di Abby sembra… diversa. Strana. Irritabile. Imprevedibile.

E, presto, una serie di sinistri incidenti comincia a verificarsi ovunque Gretchen si avvicini.

Abby comincia a indagare, ma l’unica risposta sensata ai suoi tormenti sembra essere quella più inverosimile.

Gretchen non è più se stessa. Gretchen vuole fare del male alla gente. Gretchen è un’altra persona.

Gretchen è… posseduta dal diavolo?!


“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione

Chi è convinto che l’amore romantico sia l’unico degno di essere celebrato, l’unico in grado di dare un senso a questa nostra tetra, strana e grigia vita…

Bè, diciamoci la verità: non ha davvero capito una cippa di come funzionano le cose, dico bene?

“My Best Friend’s Exorcism” racconta una delle più belle storie d’amore di cui abbia mai letto.

Solo che:

a) il libro di Grady Hendrix è un horror e, come tale, in grado di farti accapponare la pelle nei momenti più impensati;

b) le protagoniste, Abby e Gretchen, non sono innamorate, nel senso romantico e “fisico” del termine. Sono amiche del cuore. Anime gemelle. Semplicemente la persona più importante, l’una nella vita dell’altra.

Almeno fino a quando non arriva Satana a metterci lo zampino.

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“L’Isola del Dottor Moreau”: 5 cose che uno scrittore può imparare leggendo il libro di Wells


isola del dottor moreau - analisi libro h g wells

Non esagero quando dico che l’edizione Fanucci de “L’Isola del Dottor Moreau” ha fatto parte della mia TBR per anni.

Dopotutto, dello stesso autore avevo già letto “La Macchina del Tempo”, libro di cui avevo senz’altro apprezzato la visionarietà e la sottile ironia di fondo.

Ma, allora, perché mi sono ritrovata a esitare così tanto?

Bè…

Il problema è che ho una mente iperattiva e facilmente incline alle distrazioni; per cui, forse non ti sorprenderà sapere che sono le nuove uscite, per la maggior parte del tempo, a monopolizzare il mio tempo!

Eppure, paradossalmente, stavolta si dà il caso che sia stata proprio questa mia (comprensibilissima) fascinazione per i titoli appena sbarcati in libreria a spingermi a recuperare il libro di H. G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1896.

Dopotutto, a fine luglio è uscita l’edizione in lingua originale del retelling “The Daughter Of Doctor Moreau di Silvia Moreno-Garcia; l’affermata autrice di “Mexican Gothic” e “Gods of Jade and Shadow”, due romanzi affascinanti e ricchi di seducenti suggestioni morbose.

Per “prepararmi” alla lettura di questo nuovo lavoro, cos’altro avrei potuto fare, se non decidermi a a iniziare la mia bella copia de “L’Isola del Dottor Moreau”?

Ti confermo subito che si è trattato della scelta giusta. In primo luogo, perché “L’Isola del Dottor Moreau” mi ha garantito un’esperienza di lettura insolita, incisiva e ricca di spunti di riflessione.

Ma anche perché il classico di Wells mi ha permesso di assimilare cinque preziose lezioni di scrittura creativa; le stesse che ho intenzione di condividere con te, nel corso di questo articolo…


Spoiler alert!

1.Come usare il “body horror” per richiamare nel lettore un sacrosanto terrore della propria mortalità

Fra le righe della trama de “L’Isola del Dottor Moreau”, si nascondono parecchie metafore, di ordine tanto sociale, quanto metafisico, religioso e perfino esistenziale.

Eppure, su un livello profondo – un livello istintivo –  la prima reazione che la cronaca degli atroci esperimenti compiuti dal protagonista del libro è in grado di suscitare, non ha nulla a che vedere con i cosiddetti sentimenti “elevati” del genere umano.

Compassione, sdegno, etica, raziocinio…

È come se gli eloquenti plot twist del libro di H. G. Wells costringessero tutte queste cose ad “arretrare” nella mente del lettore, per lasciare campo libero a emozioni di natura assai più prosaica e ancestrale: paura. Rabbia. Sgomento. Orrore.

Per scagliarlo, insomma, in una condizione psicologia non troppo dissimile da quella sperimentata dalle tormentate creature del dottor Moreau.

Tieni presente che il body horror è il sottogenere che si propone di raccontare il senso di orrore, assoluto e incontrovertibile, che si prova al cospetto di una violazione del corpo.

Un terrore universale, intriso di sofferenza e non privo di certe particolari connotazioni grottesche, che riesce a estendere la sua fosca influenza sugli abitanti di ogni epoca, ceto e cultura.

La paura del dolore fisico, in fondo, è una delle pochissime cose in grado di accomunarci tutti.

Ed ecco perché NESSUNO sarà mai in grado di restare indifferente di fronte alla raccapricciante storia dello scienziato pazzo Moreau…

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