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7 libri simili a “Gideon la Nona”


Libri simili a “Gideon la Nona”? Qualcuno ti dirà che non è possibile trovarne.

E… ascolta, non sarò io a discutere con loro! La serie di Tamsyn Muir è un inimitabile concentrato di arguzia, minuzie gotiche e riferimenti colti alla mitologia pop. Un esempio di storytelling anticonvenzionale, più unico che raro: prezioso, labirintico e spiraleggiante.

In che modo mitigare, allora, l’inevitabile astinenza scatenata dalla fine della lettura di “Nona la Nona“, il terzo capitolo della saga “The Locked Tomb“?

Bè, è proprio qui che entra in pista l’articolo di oggi: una lista di 7 libri altrettanto UNICI, a metà strada fra fantasy e sci-fi, che qualsiasi fanatico di Harrow, Gideon, Camilla e compagni dovrebbe assolutamente leggere!

Alcuni di questi titoli – come “The Unspoken Name” – sono stati consigliati dalla Muir in persona. Altri, li ho selezionati per la loro straordinaria capacità di mescolare atmosfere goth e tecnologia ultra-avanzata, gusto postmoderno e irresistibili sbavature in stile campy horror


“Empress of Forever” di Max Gladstone

empress of forever - libri simili a gideon la nona

Vivian Liao è un’innovatrice di successo, dello stesso calibro dei suoi rivali Steve Jobs ed Elon Musk.

Vivian è anche una pensatrice radicale, incline ai ragionamenti veloci e a una serie di reazioni spericolate. Alla vigilia del suo più grande successo, cerca di superare in astuzia quelli che stanno cercando di rubare il suo prestigio; ma non ha idea di ciò che sta per capitarle.

Nella fredda oscurità del deposito che contiene un potente server di Boston, Viv mette in atto il suo ultimo piano. Un terrificante attimo più tardi, viene catapultata attraverso lo spazio e il tempo, incontro a un futuro in cui è costretta a confrontarsi con un destino più strano – e letale – di qualsiasi cosa avesse mai immaginato.

Perché la fine del tempo è governata da un’antica, onnipotente Imperatrice che ha l’abitudine di spazzare via interi pianeti con un semplice pensiero. Considerare l’idea di una ribellione è letteralmente impossibile… almeno fino a quando non arriva Vivian.

Intrappolata fra il Pride – una feroce orda di macchine senzienti – e una fanatica setta di monaci guerrieri che si fa chiamare “Mirrorfaith”, Viv dovrà radunare attorno a sé uno strano gruppo di alleati per confrontarsi con l’Imperatrice e ritrovare la strada che porta al suo mondo… e alla vecchia vita che si è lasciata alle spalle.

(Disponibile su Amazon in lingua inglese).


Punti in comune con “Gideon/Harrow/Nona”: “The Empress of Forever” è una space opera dotata di elementi fantastici (in perfetto stile “Star Wars”…), incentrata sul concetto di “found family” e caratterizzata da una complessa relazione LGBT fra due personaggi femminili forti.

A completare il quadro? Un worldbuilding cervellotico e un intreccio che farebbe fumare le sinapsi a un luminare…

Per approfondire l’argomento, ti rimando alla mia recensione di “The Empress of Forever“.


“Middlegame” di Seanan McGuire

L’identikit di Roger: abile con le parole, in grado di apprendere velocemente qualsiasi lingua. Comprende istintivamente come funziona il mondo…  attraverso il potere delle storie.

L’identikit di Dodger, la sua gemella: i numeri sono il suo mondo, la sua ossessione, il suo tutto. Tutto ciò che comprende, deriva dal suo dono per la matematica.

Roger e Dodger non sono proprio umani. Loro non lo sanno, però.

Non sono nemmeno divinità. Non proprio. Non ancora.

Ed ecco l’identikit di Reed, specializzato nelle arti alchemiche, come i suoi antenati prima di lui. Reed ha creato Dodger e suo fratello. Non è il loro padre. Non proprio. Ma ha un piano: innalzare i gemelli verso i più grandi poteri, per ascendere con loro e reclamare la sua assoluta autorità.

Ottenere il “titolo” di divinità? Un obiettivo perfettamente raggiungibile.

Pregate che non sia raggiunto.

(Disponibile su Amazon in lingua italiana).


Cosa dire?

Se non bastano le ultime righe di questa sinossi a risvegliare un campanello in fondo alla tua mente (qualcuno ha detto “Harrow” e “Lyctorhood“, per caso?), aggiungi al mix un complesso apparato di suggestioni gotiche, una spiccata tendenza a centrifugare riferimenti pop provenienti dalle fonti più disperate, e una struttura narrativa DIABOLICAMENTE arzigogolata!

Ancora non ti basta?

Prova a dare un’occhiata alla mia recensione di “Middlegame“!


“The Unspoken Name” di A. K. Larkwood

the unspoken name - libri simili a gideon la nona

E se sapessi esattamente come e quando morirai?

Csorwe lo sa – un giorno, presto, si arrampicherà sulla montagna, entrerà nel Santuario del dio della morte e guadagnerà il titolo più ambito di tutti: sacrificio.

Eppure, il giorno della sua morte, un potente mago le offre un nuovo fato. Andarsene da lì, lavorare per lui e vivere. Voltare le spalle al suo destino e al suo dio e diventare una ladra, una spia e un’assassina – la leale spada del mago.

Rovesciare un impero, e aiutarlo a rivendicare il suo scranno del potere.

Ma, come Csorwe imparerà presto, gli dei hanno una memoria invidiabile.

Vivi abbastanza a lungo, e tutti i debiti verranno saldati.

(Disponibile su Amazon in lingua inglese).


“The Unspoken Name” e il suo sequel, “The Thousand Eyes“, sono assolutamente immancabili, all’interno di una lista di libri simili a “Gideon la Nona”!

A parte le numerose somiglianze a livello di ambientazione e la presenza di un’altra, shippabilissima coppia f/f, non possiamo esimerci dal tenere a mente il personaggio di Oranna, truce necromante della Casa del Silenzio ed eminente devota del dio della morte.

I personaggi in grado di tenere testa a Harrow, in termini di grama testardaggine, passione per l’occulto e cupissima abnegazione per la pratica della resurrezione, si potrebbero contare sulle scheletriche dita menomate della mano di uno zombie...

Dai retta a me: Oranna fa parte del club!


“Così si perde la guerra del tempo” di Amal El-Mohtar e Max Gladstone

In mezzo alle ceneri di un mondo morente, un’agente trova una lettera. C’è scritto: bruciala dopo averla letta.

Inizia così un’improbabile corrispondenza fra due agenti rivali. Ognuna di loro è determinata ad assicurare il miglior futuro possibile alla propria fazione. Ma, a poco a poco, quella che era iniziata come una provocazione inizia a trasformarsi in qualcosa di più. Qualcosa di epico. Qualcosa di romantico.

Qualcosa che potrebbe cambiare il passato e il futuro.

A parte il fatto che la scoperta di ciò che sta crescendo fra di loro potrebbe causare la fine di entrambe. C’è ancora una guerra in corso, dopotutto. E qualcuno deve pur vincerla. Perchè è così che funzionano le guerre.

Giusto?

(Disponibile su Amazon in lingua italiana).


Sebbene lo stile, squisitamente poetico, di “Così si perde la guerra del tempo”, possa sembrare agli antipodi rispetto alla tamarrosa espressività vocale di Tamsyn Muir, ritengo che i due titoli conservino parecchi aspetti (assai più significativi) in comune.

L’originalità della struttura e l’eccentrica vitalità delle due protagoniste rientrano sicuramente fra questi.

Ma lo stesso vale per quell’ammaliante forma di romanticismo disperato, anticonvenzionale e struggente, che determina i rapporti fra i vari personaggi.

Voglio dire, proviamo a considerare questa bellissima citazione tratta dal libro di El-Mohtar e Gladstone:

«I have built a you within me, or you have. I wonder what of me there is in you.»

Non sembra esattamente il genere di cosa che Harrow NON direbbe mai a Gideon (e viceversa), neanche se ne andasse della sua stessa vita?

La nostra necromante preferita coglierebbe il sentimento alla perfezione, però.

Lo coglierebbe eccome.


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“The Society for Soulless Girls”: la recensione del dark academia di Laura Steven


the society for soulless girls recensione - laura steven

Dedichiamo l’articolo di oggi alla recensione di “The Society for Soulless Girls”, di Laura Steven.

Un divertente dark academia in salsa YA, che si presta a incarnare – almeno in parte – un retelling de “Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e Mr Hyde” di Robert Louis Stevenson.

Con tanto di declinazione saffica e una sana, giustificatissima, irriverente dose di rabbia femminile


La trama

Dieci anni fa, quattro studentesse hanno perso la vita negli infami omicidi della Torre Nord, presso l’esclusivo collegio artistico Carvell.

Da quel giorno, la Carvell è stata costretta a chiudere i battenti.

Ma, dal momento niente è destinato a durare per sempre, adesso l’amministrazione ha deciso di riaprire le porte, e l’impavida studentessa Lottie è determinata a scoprire la verità che si nasconde dietro quegli atti criminosi.

Quando la sua compagna di stanza, Alice, si imbatte in un sinistro rituale in grado di dilaniare l’anima di una persona e di risvegliare i suoi istinti più bestiali, la Torre Nord reclama un’altra vittima.

Riuscirà Lottie a svelare i misteri della scuola, e a evitare che un passato così denso di ombre e di sangue possa ripetersi?

E Alice, potrà mai invertire il rituale, prima che il suo mostruoso alter ego la consumi completamente?

E sarà mai possibile, per tutte e due, smettere di flirtare impunemente per quindici secondi filati, e riuscire effettivamente a combinare una qualsiasi di queste cose?!



“The Society for Soulless Girls”: la recensione

Ho iniziato a leggere “The Society for Soulless Girls” senza grandi aspettative.

Non posso più negarlo: le parole “dark academia”, ormai, tendono a evocare nella mia mente soltanto immagini di polverose biblioteche dalle tonalità color seppia e di piagnucolosi ragazzini in toga segretamente innamorati del proprio migliore amico (grrr… azie, Rebecca Kuang!).

Dal momento che non ho ancora imparato a rinunciare a un libro gotico con componente f/f, ho deciso che avrei comunque concesso un’opportunità al romanzo della Steven.

Per appurare che il suo “The Society for Soulless Girls” non ha nulla a che spartire con questi elementi così temuti. E che i termini “polemico” e “lamentoso” non rientrano assolutamente nel novero degli aggettivi con cui potrebbe essere descritto.

Una felice scoperta, quindi, che ha avuto il potere di scaraventarmi fra le pagine di una storia grintosa, dark, ben strutturata e scritta con intelligenza.

Una narrazione ricca di verve e di macabro umorismo nero, quella della nostra Laura Steven. Corredata, fra l’altro, da una frizzante vena di nostalgia Anni Novanta e da un ritmo che tende a incagliarsi giusto un po’ in alcuni punti.

E se è vero – come è vero – che gli elementi ispirati al già citato classico della letteratura ottocentesca sono così sottili da rasentare quasi una pura eccentricità, l’originalità della storia riesce a livellare queste apparenti discrepanze con invidiabile disinvoltura.

E cos’è che tiene insieme così bene tutti questi tasselli del racconto?

Bè, sicuramente le tematiche.

Ribellione, lotta al patriarcato e repressione della rabbia si collocano in pole position. Anche perché, per citare l’autrice: «i tempi sembrano maturi, a questo punto, per parlare della dualità della natura umana anche dal punto di vista femminile

L’inquietante immaginario della Steven, dal canto suo, risulta squisitamente compatibile con questo obiettivo. E, già che ci sono, porrei l’accento anche sulla capacità dell’autrice di restare continuamente “sul pezzo”, senza scadere nella facile retorica o nella semplice banalità da pubblicità progresso tipica di altri autori.


Love your monster

Sull’altro piatto della bilancia, ci confrontiamo, invece, con due eroine gradevoli – ma tutt’altro che indimenticabili – e con un trope romantico (l’immortale “grumpyXsunshine”) che avrebbe potuto ambire a qualcosa di più.

Ho letto da qualche parte che, in occasione dell’imminente uscita USA di “The Society for the Soulless Girls”, Laura Steven sottoporrà il testo a un intenso giro di revisione. L’editing sarà finalizzato soprattutto al miglioramento dell’elemento romance e della qualità dei dialoghi (leggi: banter).

Un’ottima notizia, per quanto mi riguarda.

Per carità, Lottie e Alice sono due personaggi abbastanza “shippabili” così come sono…

Ma non c’è dubbio: l’aggiunto di scene e momenti “particolari” fra di loro potrebbe portare a dei grandi benefici, soprattutto dal punto di vista dello sviluppo dei rispettivi archi narrativi.


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“A Lesson in Vengeance” in italiano: 3 ottimi motivi per leggere il libro di Victoria Lee (e 1 per non farlo)


a lesson in vengeance in italiano- victoria lee

La mia recensione di “A Lesson in Vengeance” è disponibile sul “Laumes’Journey” già da qualche tempo. Tuttavia, dal momento che la Mondadori ha appena annunciato la sua intenzione di pubblicare la traduzione italiana del thriller per ragazzi di Victoria Lee, ho pensato bene di tornare a spendere due parole sull’argomento.

Ami il dark academia? Ti piacciono le storie oscure e conturbanti, i personaggi moralmente ambigui e le love story appassionatamente, morbosamente tossiche?

Allora preparati a incontrare Felicity e Ellis, e a esplorare insieme a me tre ottime ragioni per leggere “A Lesson in Vengeance”! 😀


La trama

Dopo la tragica morte della sua ragazza, Felicity Morrow torna alla Dalloway School per finire il suo ultimo anno di scuola.

Le assegnano perfino la sua vecchia stanza alla Godwin House, l’esclusivo dormitorio che, stando alle voci del corpo studentesco, potrebbe essere infestato dagli spiriti di cinque ragazze che frequentavano la Dalloway.

Studentesse che, secondo alcuni, erano streghe.

La stregoneria, del resto, è incisa nel tessuto stesso del passato della Dalloway. La scuola non ne parla, ma le ragazze lo fanno. E, nelle stanze segrete e negli angoli bui, si radunano ancora per seguire il loro esempio.

Prima che la sua ragazza morisse, anche Felicity era attratta da quest’oscurità. Adesso, però, è determinata a lasciarsi alle spalle tutte queste brutte storie.

Certo, più facile a dirsi che a farsi, quando la storia occulta della Dalloway sembra annidarsi dappertutto. E quando la nuova arrivata non intende permetterle di dimenticare.

È il primo anno di Ellis Haley alla Dalloway. Romanziera di successo a soli diciassette anni, Ellis è eccentrica, carismatica e brillante, e Felicity non riesce a liberarsi dall’ineluttabile senso di attrazione che continua a spingerla verso di lei. Così, quando Ellis le chiede di aiutarla a fare ricerche sul passato della Dalloway per il suo secondo libro, Felicity non riesce a dirle di no.

Non appena la storia inizierà a ripetere se stessa, Felicity dovrà confrontarsi, una volta ancora, con l’oscurità che si annida nella scuola… e dentro di lei.


3 eccellenti motivi per leggere “A Lesson in Vengeance” di Victoria Lee (e 1 per non farlo)

  • L’incredibile complessità morale delle protagoniste

La componente psicologica è uno degli elementi più notevoli e accattivanti di “A Lesson in Vengeance”.

Sia messo agli atti: né Felicity, né Ellis, a parer mio, tendono a qualificarsi esattamente come dei mostri di simpatia.

Ma Victoria Lee costruisce le loro personalità con un’invidiabile livello di abilità, dando vita a due poli magnetici in grado di esercitare un fortissimo ascendente sull’immaginazione del lettore. La loro immediata connessione, basata su un complesso meccanismo di attrazione-repulsione, risulta viscerale e credibilissima.

Una voragine che è quasi un buco nero; una ferita grigio-scura, in grado di incoraggiare chi legge a formulare ipotesi bizzarre e porsi domande angoscianti.

Insomma, la sinossi dell’edizione originale del libro parla di “romance pericoloso”, e… per una volta, ammettiamolo, non si tratta affatto di un’esagerazione!


  • L’innegabile fascino dell’atmosfera

A metà strada fra gotico e thriller, “A Lesson in Vengeance” potrebbe essere la lettura perfetta per chiunque abbia amato il film “The Pale Blue Eyes: I Delitti di West Point”.

L’intreccio, seppur imbrigliato da un paio di scelte narrative che reputo eccessivamente “scolastiche”, si dimostra abbastanza solido nelle sue parti.

Ma è l’atmosfera l’elemento del romanzo che convince di più: la capacità di Victoria Lee di sfruttare tutte le potenzialità insiste nell’estetica del dark academia a proprio vantaggio, costringendo ripetutamente il lettore a confrontarsi con gli inquietanti sussurri e giochi d’ombra che si rincorrono nei corridoi della sua cupa ambientazione.

Fra un dotto riferimento a un grande classico della letteratura dell’Ottocento e un’ambigua apparizione, insomma, la tensione cresce a dismisura, evocando ombre e sospetti imprevedibili nella mente delle ragazze… e del pubblico.


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“All the Dead Lie Down”: la recensione del libro gotico di Kyrie McCauley


all the dead lie down recensione - kyrie mccauley

Riprendiamo le trasmissioni con la recensione di “All the Dead Lie Down”, avvincente libro gotico per ragazzi di Kyrie McCauley.

Una storia d’amore, morte, traumi e redenzione che ricorda tantissimo la straordinaria miniserie di Mike Flanagan “The Haunting of Bly Manor”.

Un romanzo in grado di giocare con tutti i trope del genere e di regalare al lettore una lunga serie di sospiri, brividi e palpitazioni, basato su una solidissima atmosfera e su un ottimo cast di personaggi al femminile.


La trama

Da qualche giorno, Marin Blythe è rimasta completamente sola. Dopo che un terribile incidente ferroviario le ha strappato l’unico genitore, infatti, la ragazza non dispone più di connessioni o mezzi di sostentamento, e non sa più che pesci pigliare.

Almeno fino a quando non riceve un invito a sorpresa da Alice Lovelace – un’acclamata scrittrice di libri horror, nonché vecchia amica d’infanzia di sua madre. Alice offre a Marin una posizione da tata presso Lovelace House, l’antica magione della sua famiglia, situata sulle affascinanti e isolate coste del Maine.

Marin non riesce a credere alla sua fortuna. Dopo aver accettato, si ritrova quindi a badare alle peculiari figliolette di Alice: Thea, una bambina che ha il bizzarro hobby di seppellire le proprie bambole, e Wren, che sembra determinata a fare tutto ciò che è in suo potere per mandare via Marin.

E poi Evie Hallowell, la figlia più grande di Alice, viene espulsa dalla sua accademia e torna a casa a sua volta. Evie è tanto strana quanto le sue sorelle; anzi, forse addirittura di più. Eppure, la sua eterea bellezza e il suo comportamento magnetico attraggono Marin come una calamita.

Tuttavia, mentre Marin inizia ad ambientarsi, l’ansia che da sempre la tormenta inizia a impennarsi in un picco vertiginoso. Perché una serie di uccellini morti prende a comparire sul davanzale della sua finestra. Gli scherzi delle bambine, prima così innocenti, iniziano a prendere una piega sinistra.

E qualcosa di pericoloso si aggira nei boschi, lasciandosi alle spalle una scia di animali mutilati.

Non va tutto bene, a Lovelace House: presto, Marin dovrà svelare i segreti della casa, o rischiare di finire completamente consumata dal suo oscuro passato.



“All the Dead Lie Down”: la recensione

Il mio riferimento all’adattamento televisivo de “Il Giro di Vite” di Henry James non è stato casuale.

In effetti, l’affinità fra i due titoli non si limita neanche agli aspetti più evidenti.

Certo, l’odissea di Marin assomiglia moltissimo a quella di Dani Clayton, l’intrepida e tormentata eroina del popolare show targato Netflix. Inoltre, anche in “All the Dead Lie Down” possiamo trovare una coppia di bambini/e che continua a danzare sulla sottile linea di confine che separa “l’adorabilmente eccentrico” dal “maledettamente inquietante”.

E l’appassionata storia d’amore saffica al centro dell’intreccio del romanzo di Kyrie McCauley echeggia sicuramente quella (indimenticabile) fra Dani e Jamie nella suddetta miniserie.

Ma credo che il legame fra i due titoli, in realtà, si estenda in maniera anche più profonda di così.

Tanto per cominciare, anche “All the Die Lie Down” rappresenta un lungo, lunghissimo slow burn, una malinconica e struggente riflessione sui temi dell’elaborazione del lutto e della perdita.

La componente sentimentale, dal canto suo, svolge un ruolo di primo piano ed è portata avanti in maniera convincente e ricca di pathos: vale a dire, rispettando in pieno le convenzioni del proprio genere di riferimento.

Tuttavia, neanche la bellissima love story ha il potere di mettere in ombra la tempestosa e cupa atmosfera, o la complessa caratterizzazione psicologica dei personaggi.

Crimson Peak” incontra “Pet Cemetery”, con un pizzico de “La Notte dei Morti Viventi” e “La Figlia di Rappaccini“.

Il tutto, chiaramente, rielaborato secondo il gusto YA e filtrato da uno stile estremamente scorrevole e alla portata di chiunque.


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“A House with Good Bones”: la recensione del libro gotico di T. Kingfisher


a house with good bones recensione - t kingfisher

La recensione di “A House with Good Bones” arriva sul blog in notturna: un’anomalia, dovuta al fatto che il destino ci ha messo lo zampino, mandando completamente a monte tutti i miei programmi per la giornata.

Ma non vedevo l’ora di raccontarti qualcosa a proposito del nuovo libro horror di T. Kingfisher!

Un’autrice che ho conosciuto grazie al delizioso retelling fiabesco “The Raven and the Reindeer, e imparato ad amare attraverso il brividoso e divertentissimo survival “The Hollow Places”.

“A House with Good Bones”, southern gothic dalla personalità spiccatissima, contiene tutti gli elementi che abbiamo imparato ad associare a questo genere: una casa (probabilmente) infestata, un’atmosfera inquietante e misteriosa, una sfilza di rapporti famigliari complicati e una protagonista dalla voce assolutamente indimenticabile…

Certo: l’intreccio risulta penalizzato da una serie di twist a dir poco prevedibili. Per non parlare di una risoluzione frettolosa che, nel terzo atto, tende a mettere alla prova la sospensione dell’incredulità del lettore con una certa insistenza.

Ma l’inconfondibile piglio ironico della Kingfisher, combinato all’irresistibile sense of humor e alla lucida vena dissacrante della sua protagonista, rendono la lettura di questo romanzo un’esperienza unica, spassosa ed elettrizzante.

Minacciando di scatenare (in maniera del tutto deliberata) un’esplosione di ilarità incontrollata, perfino nei momenti di massima tensione…


La trama

«La mamma sembra un po’ strana

Da quando suo fratello ha pronunciato queste parole, Sam Montgomery non riesce a scacciare una certa preoccupazione.

Le sente ancora echeggiare nella mente, mentre imbocca la tranquilla stradina della Carolina del Nord in cui vive sua madre, sola.

Sam cerca di allontanare il pensiero con tutte le sue forze. Il suo scavo archeologico è appena stato annullato, per cui le toccherà trascorrere qualche mese nella sua vecchia casa d’infanzia. E, in realtà, l’idea di una visita prolungata non le dispiace del tutto, soprattutto considerando lo splendido rapporto che lei e la mamma hanno sempre condiviso.

Sam è felicissima di poter trascorrere del tempo con lei. Solo loro due, intente a bere vino direttamente dal cartone, guardare uno dei loro adorati murder mistery britannici alla tv, cercando di indovinare l’identità del killer prima del solito detective di turno.

Eppure, non appena mette piede in casa, Sam si accorge che la sua vecchia dimora non è più il porto sicuro di un tempo. L’accogliente charm per cui sua madre è sempre stata famosa sembra svanito nel nulla; adesso, le mura sono dipinte di uno sterile e freddo bianco.

La mamma salta in aria al minimo rumore e si guarda costantemente alle spalle, anche quando è lei l’unica altra persona presente nella stanza. E quando Sam esce in giardino per schiarirsi le idee, si imbatte in una giara piena di denti nascosti sotto un cespuglio di rose, una pianta degna delle pagine di una rivista patinata.

Per non parlare dello stormo di avvoltoi che continua a sorvolare il loro cortile dall’alto…

Che cosa sta succedendo alla mamma? Perché è così spaventata? Per scoprirlo, Sam dovrà scavare, alla ricerca della verità.

Ma, forse, sarebbe meglio lasciare sepolti certi segreti



“A House with Good Bones”: la recensione

T. Kingfisher tende a scrivere quel tipo di horror alla portata di tutti, che nessun estimatore del genere sano di mente prenderebbe mai in considerazione di lasciarsi sfuggire.

Suona un po’ paradossale, detta così, non è vero?

Eppure, ti giuro che è proprio così!

Nel suo “A House with Good Bones”, seguiamo il punto di vista – scientifico e iper-razionale – di Sam, una paleoentomologa appassionata di insetti e di archeologia. Una donna con la testa sulle spalle e dalla battuta sempre pronta, liberale e piena di vita, che gode di un ottimo rapporto con sua madre, una signora del Sud dall’intelletto vivace e la spiccata indole ribelle.

In realtà, credo di non essermi mai imbattuta in un horror famigliare incentrato su una relazione madre-figlia così positiva. Devo dire che si è trattato di una piacevole novità. Anche perché la mamma di Sam, Edie, è davvero un personaggio fantastico, adorabile in ogni sua sfumatura.

Ed è proprio il gramo senso di minaccia che sembra aleggiare su di lei ad irretirci nella lettura, in un primo momento, coinvolgendoci nei dubbi di Sam e costringendoci a porci ripetutamente la fatidica domanda: e se la povera Edie stesse impazzendo?

Perché, d’un tratto, questa mamma così schiva e amorevole sembra sempre così sulle spine? Per quale motivo finge di non ricordare dettagli importanti dell’infanzia di Sam e di suo fratello?

Sarà la demenza? Un semplice attacco di senilità precoce? O… qualcos’altro?

Qualcosa di molto più sinistro, che l’implacabile mente analitica di Sam – da sempre aversa a qualsiasi tipo di superstizione – fa infinitamente fatica ad accettare.

Perché, tendenza al gaslighting a parte, di punto in bianco Edie ha preso l’abitudine di uscirsene con una serie di atteggiamenti che sembrano suggerire un’inquietante somiglianza con il modus operandi della propria madre – una vegliarda bigotta e severa, defunta da anni e razzista fin nel midollo, incline a incutere un sacro terror nero nel cuore dei suoi stessi nipoti…


Danza Macabra

Ero indecisa se menzionarlo o meno, dal momento che si tratta di un fattore completamente secondario. Ma la mia recensione di “A House with Good Bones” potrebbe forse dirsi completa, se mancassi di riferire un pensiero che si è più volte impadronito di me durante la lettura?

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“Daphne Byrne”: la recensione del fumetto gotico di Marks e Jones


daphne byrne recensione - fumetto hill house

Spero che la recensione di “Daphne Byrne” riesca a portarmi bene: da oggi in poi, mi piacerebbe riuscire a dedicare un piccolo spazio, qui sul blog, anche alle graphic novel e ai fumetti di ogni nazionalità.

Perciò, dita incrociate, e speriamo di portare avanti questo proposito per tutto il resto dell’anno!

“Daphne Byrne”, serie a fumetti di Laura Marks (responsabile dei testi) e Kelley Jones (autore delle illustrazioni), fa parte della collana horror “DC Hill House”. Il progetto, supervisionato da Joe Hill, comprende, al momento, un’altra mezza dozzina di titoli.

Ricordiamo, fra tutti, il delizioso “A Basketful of Heads: Una Cesta Piena di Teste” e l’horror generazionale “The Dollhouse Family: La Casa delle Bambole”.

Ovviamente, non è necessario leggere l’intera collezione, per riuscire ad apprezzare i singoli volumi. Ogni libro della serie racchiude in sé, infatti, un episodio perfettamente autoconclusivo.

“Daphne Byrne” rappresenta, dal canto suo, un tripudio di inquietanti suggestioni vittoriane. La storia è abbastanza semplice (c’è chi l’ha descritta come una sorta di «”Carrie” ambientato nel diciannovesimo secolo»), ma si lascia leggere con piacere, distinguendosi soprattutto in virtà del disturbante immaginario demoniaco evocato dalle espressive tavole di Kelley Jones…


La trama

New York, diciannovesimo secolo.

La quattordicenne Daphne Byrne ha appena perso suo padre. Sua madre è sprofondata nelle grinfie di una probabile ciarlatana che continua a spacciarsi per medium, sperperando quel poco che resta delle loro dissestate finanze famigliari.

La situazione della ragazzina, già di per sé difficile, è resa ancora più nera dall’atteggiamento altezzoso delle sue compagne di scuola. Fra un attacco di bullismo e una litigata con sua madre Daphne continua a visitare la tomba di suo padre e a pregare per un futuro diverso, senza risultato.

Almeno fino a quando nella sua vita non irrompe un’ombra, lo spettro di un’entità pronta a ergersi in sua difesa.

A mano a mano che il demone inizia a stringere un legame particolare con Daphne, allarmanti fenomeni paranormali incontrollabili prendono a manifestarsi…


“Daphne Byrne”: la recensione

Quando, a fine lettura, ho provato a dare un’occhiata alle “credenziali” di Laura Marks, non sono rimasta particolarmente sorpresa da quello che ho trovato.

Sceneggiatrice televisiva di serie tv popolari (inclusi alcuni episodi di show molto amati dalla sottoscritta, tipo “Servant” o “The Expanse”…), ha esordito nel mondo del fumetto proprio grazie alla pubblicazione di questo volumetto.

In effetti, “Daphne Byrne” sembra rispondere, senza grosse deviazioni, a certe particolari logiche specifiche del mercato televisivo. Un sacco di fumo, qualche traccia di arrosto, un pizzico di tensione, tanto gore e un’estetica che emana un chiaro sentore di calderone fagocita-suggestioni, prodotto derivato di un intero filone cinematografico e di qualche progetto televisivo attentamente selezionato.

Non osa mai fare il passo più lungo della gamba, Laura Marks. La sua creatura offre al pubblico un paio d’ore di piacevole e brividoso intrattenimento; l’equivalente stampato su carta di una miniserie in sei episodi prodotta da Netflix, o da qualche altro colosso dello streaming.

Nulla di male in questo, beninteso. Anzi.

Ma sembra quasi doveroso riconoscere l’importanza del contributo di Kelley Jones, dal momento che i suoi disegni (genuinamente terrificanti) costituiscono il 90% di tutto ciò che permette a “Daphne Byrne” di coltivare una propria identità.


La schiavitù del corsetto

Dal canto loro, le tematiche trattate all’interno di “Daphne Byrne” (ribellione femminile e lotta al patriarcato, nel pieno dell’età più repressiva) offrono sicuramente un mucchio di spunti di riflessione interessanti.

Anche perché il dolore dell’eroina di Laura Marks ha un aspetto molto reale. Il suo senso di isolamento, la consapevolezza di essere “diversa” e praticamente carne da macello, agli occhi di un sistema sociale che non aspetta altro che di cibarsi di coloro che non godono di alcuna protezione, trovano senz’altro un terreno di suggestione molto fertile, all’interno della nostra sensibilità moderna.

In realtà, sospetto che, se soltanto al personaggio di Daphne fosse stata concessa una caratterizzazione meno standard e generica, il livello di coinvolgimento emotivo del lettore, soprattutto in determinati punti-chiave della narrazione, avrebbe avuto il potenziale di schizzare alle stelle!

Stesso discorso per l’ambiguo demone “tentatore” che si fa conoscere solo con il nome di “Fratello”.

Non serve aver mandato già l’intera bibliografia di Stephen King o Ira Levin, per riuscire a prevedere le sue azioni o quelle di Daphne: la loro storia scorre su dei binari talmente precisi, netti e lineari, che anche soltanto l’idea di ipotizzare un finale alternativo risulterebbe, probabilmente, una pura e semplice stravaganza.

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“She is a Haunting”: la recensione del libro horror di Trang Thanh Tran


she is a haunting recensione - Trang Thanh Tran

La recensione di “She is a Haunting” conterrà zero spoiler, un paio di crisi esistenziali, tanti fantasmi e una dose di riferimenti tutt’alto che ingiustificati a “Mexican Gothic” di Silvia Moreno-Garcia!

Il libro d’esordio di Trang Thanh Tran è uno degli horror YA più chiacchierati di questa prima parte dell’anno. Ne abbiamo sentito parlare sui social e nei siti specializzati; la sua pittoresca cover si è materializzata un po’ dappertutto; i paragoni con il leggendario “Incubo di Hill House” si sono sprecati…

A questo punto, ti starai forse chiedendo: ma ne sarà poi valsa la pena, di coltivare tutto quest’hype?

Cerchiamo di scoprirlo insieme! ;D


La trama

Per cercare di inserirsi, Jade Nguyen ha sempre dovuto mentire.

Non è mai stata abbastanza etero, abbastanza vietnamita o abbastanza americana per riuscire a trovare il suo posto senza problemi. La situazione non cambia quando, a causa di un disperato bisogno di denaro, decide di accettare la proposta di suo padre di trasferirsi da lui in Vietnam per un breve soggiorno di cinque settimane.

Jade non è in buoni rapporti con suo padre. Non lo vede quasi mai, tanto per iniziare. E, comunque, non riesce a perdonarlo per aver abbandonato la sua famiglia, quando lei era ancora soltanto una bambina.

Come se non bastasse, il genitore sembra letteralmente ossessionato dall’idea di riportare ai fasti di un tempo una vecchia casa decrepita risalente al periodo coloniale francese.

Ma Jade è determinata a stringere i denti, se questo significa ottenere da lui il denaro di cui ha bisogno per iscriversi all’università.

Dopo pochi giorni, però, la ragazza inizia a svegliarsi ogni mattina in preda alla confusione più totale. Ha come l’impressione che qualcosa si ostini a strisciare lentamente giù per la sua gola… E poi, Jade si imbatte nel fantasma di una bellissima sposa. Una presenza che continua a farle visita in sogno, recando un unico, criptico avvertimento: NON MANGIARE.

Quando suo padre e la sua sorellina si rifiutano di crederle, Jade decide di provare a spaventarli per convincerli a lasciare la casa, inscenando un’infestazione ectoplasmica tutta sua. In suo soccorso interviene Florence, la vivace nipote del socio in affari di suo padre… un aiuto molto gradito, che rappresenta, a sua volta, una grande fonte di distrazione.

 La casa, però, ha in serbo altri piani. Perché un’abitazione, dopotutto, è forte soltanto quanto coloro che sono disposti a infondere nuova linfa nelle sue ossa.

E questa casa non è disposta a rimanere sola un’altra volta, a nessun costo…



“She is a Haunting”: la recensione

Se la trama dell’opera d’esordio di Trang Thanh Tran fosse stata un po’ più incalzante, il ritmo un po’ meno pachidermico (e, magari, scandito da qualche colpo di scena in più) penso che sarei riuscita a innamorarmi perdutamente di questo libro.

Sotto molti punti di vista, infatti, “She is a Haunting” è un romanzo superbo. Può vantare un’atmosfera da brividi, tanto per cominciare, e una sensazione strisciante di costante paranoia che, a lungo andare, finisce per logorare i nervi del lettore nel più delizioso ed elettrizzante dei modi.

Contiene anche una delle migliori rappresentazioni dei disturbi d’ansia in cui mi sia mai imbattuta, soprattutto nel novero della narrativa fantastica per ragazzi. La lotta di Jade contro la sindrome della paralisi del sonno e i suoi martellanti pensieri intrusivi – miei nemici personali da almeno diciassette anni – risulta persuasiva, incalzante e dannatamente credibile, ragazzi!

Ma non è tutto.

Oltre ai temi del colonialismo, della diaspora e del senso di straniamento che deriva dal sentirsi tagliati fuori dalle proprie radici, “She is a Haunting” affronta benissimo anche l’argomento della repressione sessuale.

Nel farlo, ricorre a un immaginario cupo e disturbante, degno del popolarissimo “Mexican Gothic”, senza lesinare un paio di efficaci richiami al mondo del body horror.

I punti di contatto con il famoso libro della Moreno-Garcia non finiscono qui, ovviamente.

Basti pensare alla quantità di spore, insetti e parassiti che affollano le pagine del romanzo. Presenze malefiche e invisibili, che infestano l’aria quanto – e forse più – delle stesse presenze che si aggirano nei corridoi a tarda notte.

Evocate dal linguaggio elegante ed allusivo di Trang Thanh Tran, con il suo carico di sensualità a malapena trattenuta, e dall’energia sprigionata da un milione di tabù culturali perennemente sul punto di infrangersi…

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“My Dear Henry”: terrori vittoriani e amori proibiti nel nuovo libro gotico di Kalynn Bayron


my dear henry - kalynn bayron

Il 7 marzo è uscito negli USA “My Dear Henry” di Kalynn Bayron: un romanzo horror M/M, ambientato nella Londra del diciannovesimo secolo e rivolto al pubblico dei giovani lettori.

Il libro, una rivisitazione in chiave moderna de “Lo strano caso del Dr. Jekyll & Mr. Hyde”, fa parte della collana “Remixed Classics”. La serie, che include per il momento una mezza dozzina di titoli firmati da altrettanti autori, tende a fare dell’inclusività in generale, e della rappresentazione LGBT in particolare, uno dei propri cavalli di battaglia.

Non fa eccezione “My Dear Henry”, un’incursione nelle fuligginose atmosfere vittoriane firmata dall’autrice degli adorabili “Cinderella is Dead” e “This Poison Heart”…


“My Dear Henry”: la trama

Londra, 1885.

Il diciassettenne Gabriel Utterson è appena tornato a Londra. È la prima volta che rimette piede in città, da quando la sua vita – e quella del suo amico più caro, Henry Jekyll – è stata deragliata da uno scandalo che ha condotto alla loro espulsione dalla Scuola Medica di Londra.

Una serie di pettegolezzi circa la vera natura della relazione fra Gabriel e Henry ha seguito i ragazzi per due anni; adesso, per la prima volta, sembra che Gabriel abbia l’opportunità di ricominciare da capo.

Ma Gabriel non ha alcuna intenzione di voltare pagina; non se questo significa rinunciare a Henry. Il suo amico è diventato distante e freddo dopo i disastrosi eventi della primavera trascorsa; le sue lettere, un tempo sporadiche, adesso hanno definitivamente smesso di arrivare.

Disperato (e anche un po’ preoccupato), Gabriel inizia quindi a tenere d’occhio la casa di Jekyll.

È così che si imbatte in Hyde, un giovane uomo dall’aria stranamente familiare, dotato di un fascino magnetico.

Hyde sostiene di essere un amico di Henry, e Gabriel non riesce a fare a meno di ingelosirsi per la loro apparente intimità; soprattutto perché Henry continua a comportarsi come se Gabriel non significasse niente per lui.

Ma il segreto che si nasconde dietro l’apatia di Henry è soltanto la prima parte di un mistero che ha appena iniziato a dipanarsi. Mostri di ogni tipo imperversano nella nebbia di Londra… anche se non è detto che siano tutti a caccia di sangue.



La serie “Remixed Classics”

Oltre a “My Dear Henry”, la serie “Remixed Classics” comprende per il momento i seguenti titoli:

  • A Clash of Steel” di C. B. Lee, un retelling de “L’Isola del Tesoro” scritto dall’autrice del delizioso “Not Your Sideckick”. In questa versione, infusa di elementi tratti dalla mitologia cinese e vietnamita, due ragazze si lanciano in una pericolosa caccia al tesoro a spasso per i sette mari.
  •  “So Many Beginnings” di Bethany C Morrow, un retelling in chiave “all black” del classico di Louisa May Alcott. Mentre altrove infuriano i fuochi della guerra civile, la famiglia March riesce finalmente a mettere radici in un porto sicuro. La colonia dell’isola di Roanoke, infatti, rappresenta una sorta di paradiso per tutte quelle persone che sono riuscite ad affrancarsi dalla schiavitù. E sarà proprio a Roanoke che le quattro sorelle March avranno la possibilità di confrontarsi con tutti i problemi della crescita: amore, amicizia,speranze, conflitti e delusioni.
  • Travelers Along the Way” di Aminah Mae Safi. Il libro narra una differente versione della popolare leggenda di Robin Hood. Ai tempi della Terza Crociata, una banda di emarginati resta invischiata nei giochi di potere della Terra Santa. Due sorelle, in modo particolare, decidono di giocarsi il tutto per tutto, imbarcandosi in una pericolosa missione destinata a fermare i piani espansionistici della cosiddetta “falsa regina”, Isabella…
  • What Souls Are Made Of” di Tasha Suri, autrice dell’indimenticabile “The Burning Throne: Il Trono di Gelsomino” (in uscita in Italia a marzo 2023). “What Souls Are Made Of” è un retelling di “Cime Tempestose” che prova a immaginare cosa sarebbe successo nello Yorkshire del 1786 se, oltre ai guai che avevano già, Catherine e Heathcliff avessero anche potuto rivendicare origini indiane…
  • “Self-Made Boys” di Anna-Marie McLemore, un retelling de “Il Grande Gatsby”. Il protagonista è Nicolás Caraveo, un ragazzo transgender del Winsconsin che, coinvolto in un gioco di intrighi romantici e segreti insospettabili, rischia di rimanere seriamente abbagliato dal glamour della New York degli Anni Venti…
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“Sundial”: la recensione del fenomenale libro horror di Catriona Ward


sundial recensione - catriona ward

La recensione di Sundial” è dedicata a tutti i fan di Shirley Jackson, Stephen King e Sarah Pinborough eventualmente in ascolto.

In questo articolo parleremo, infatti, di un horror psicologico ipnotico, spietato, “duro” e infarcito di colpi di scena, ambientato sullo sfondo di un deserto tanto ostinato, quanto imprevedibile.

Ancora una volta, Catriona Ward – autrice del magnifico “La casa in fondo a Needless Street” – intesse un intreccio magnetico e avvincente, mescolando abilmente tutti gli “ingredienti” che, ormai, rappresentano il suo marchio distintivo: un impeccabile uso del narratore inaffidabile, un’ambientazione crudele, un ritmo da infarto e un cast di personaggi assolutamente indimenticabile…


La trama

Rob ha paura di sua figlia.

Callie, infatti, colleziona piccole ossa e sussurra cose incomprensibili ai suoi amici immaginari, e Rob teme ogni giorno che la sua strana bambina possa fare del male a Annie, la sua sorellina.

Forse perché Rob vede in Callie un’oscurità che le ricorda la famiglia che si è lasciata alle spalle… quella che ha fatto del suo meglio per dimenticare.

Dal momento che non vede altro modo per tenere Annie al sicuro, Rob decide quindi di portare Callie a Sundial, la sua casa d’origine, nel profondo del deserto del Mojave.

Una volta lì, dovrà compiere una scelta terribile

Callie ha paura di sua madre.

È da un po’ che Rob ha cominciato a guardarla in modo strano. A raccontarle dei segreti, relativi al suo passato, che sembrano disturbarla ed elettrizzarla al tempo stesso.

Ma il punto non è nemmeno questo, in realtà.

Perché madre e figlia sono consumate da un sospetto atavico: e se soltanto una di loro fosse destinata a lasciare Sundial sulle sue gambe?



“Sundial”: la recensione

Nei libri di Catriona Ward, il mondo antico non è mai troppo lontano da quello moderno

Dopotutto, non c’è patina di civiltà, non c’è barriera culturale che tenga: sotto la pelle, ogni uomo (e ogni donna) ha il potenziale che gli/le serve per ritornare a essere una bestia feroce.

Una creatura selvaggia, incontrollabile, che ulula alla luna ogni notte e paga il suo tributo di sangue agli antichi dei nell’unico modo che conosce: attraverso un sacrificio di anime e corpi.

Se hai letto la mia recensione di “Little Eve” – pubblicata qui sul blog lo scorso luglio – sai già che reputo Catriona Ward una delle voci più originali, sorprendenti e promettenti del panorama gotico internazionale. Non per niente, stiamo parlando dell’autrice che è riuscita ad aggiudicarsi, fra le altre cose, il British Fantasy Award per il miglior romanzo horror per ben tre anni consecutivi!

“Sundial”, dal canto suo, è un libro che parla di mostri, letterali e simbolici, e delle mille forme che il Male può assumere su questa terra; ma anche di infanzia rubata e di complicatissimi rapporti famigliari, concentrandosi in modo particolare sul tormentato legame fra sorelle e su quello fra madre e figlia.

Un vero e proprio giro di giostra negli inferni della mente; un tour de force destinato a evocare in chi legge un carico di angoscia e palpitazioni senza precedenti.

Perché le due voci narranti alternate – quella di Rob, la protagonista; e quella di sua figlia maggiore, la problematica Callie – tendono a conficcarsi nella tua pancia come le zanne di un cane selvatico, e a non lasciarti alcuna possibilità di scampo…


Tutte le famiglie infelici sono uguali, ogni famiglia pazza è pazza a modo suo…

I segreti che queste due donne si trascinano dietro sono come pietre tombali; l’eco di una sinistra maledizione famigliare, forse, che affonda le radici più in profondità di quanto chiunque possa sospettare.

Gran parte della narrazione di “Sundial” si concentra, quindi, su una linea temporale passata (?) e sfasata, che continua a sovrapporsi a quella attuale senza apparente soluzione di continuità, tracciando una sorta di spirale pronta a fagocitare tanto i personaggi, quanto il lettore.

L’atmosfera surreale (e alienante) del deserto ammalia, incanta, acceca e rapisce, costringendo le due protagoniste a fare i conti con lo stesso paesaggio (interiore) che rispecchia i loro trascorsi.

Dopotutto, quando il sole rovente e la polvere che ti si infiltra nei polmoni sono i tuoi unici punti di riferimento, fino a che punto riuscirà a spingersi la tua bussola morale?

Quanto tempo impiegherà la tua psiche a lasciarsi corrompere dalle stesse intemperie che erodono quotidianamente le rocce, i dirupi e le montagne?

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“One Dark Window”: la recensione del libro fantasy di Rachel Gillig


one dark window recensione - rachel gillig

Nella mia recensione di “One Dark Window”, farò del mio meglio per cercare di restare obiettiva e limitarmi a elencare quelli che sono, secondo me, i principali pregi e i maggiori difetti del libro di Rachel Gillig.

Ma, a essere del tutto onesti, ho trovato la lettura di questo romanzo abbastanza insoddisfacente.

In parte, probabilmente, perché le mie aspettative riguardo questo titolo sono state completamente calpestate. In effetti, ero convinta di trovarmi alle prese con un dark fantasy o con un fantasy gotico per lettori adulti.

Alla resa dei conti, mi sono ritrovata invece a leggere un tradizionalissimo libro YA a sfondo super-sentimentale.

Un romance tutto considerato gradevole e impreziosito da una suggestiva atmosfera “oscura”. Ma anche un libro che non riesce – neppure per un secondo – a scivolare fuori dai binari di una narrazione estremamente blanda e prevedibile


La trama

Nell’inquietante regno di Blunder, una terra perennemente avvolta dalle nebbie, Elspeth Spindle ha bisogno di qualcosa di più della fortuna per rimanere al sicuro : ha bisogno di un mostro.

La ragazza lo chiama “l’Incubo”. Si tratta, in realtà, di uno spirito antico e volubile, intrappolato nella sua testa sin da quando era solo una bambina. La creatura la protegge. Custodisce i suoi segreti.

Ma nulla si ottiene senza pagare un prezzo, specialmente la magia.

Quando Elspeth incontra un misterioso bandito sulla strada che percorre la foresta, la sua vita compie una virata drammatica. Catapultata in un mondo di ombre e di inganni, la nostra eroina si unisce a una pericolosa quest per trovare la cura che permetterà a Blunder di liberarsi, una volta per tutte, dalla terribile maledizione di piaghe e nebbie che la affligge.

E il bandito? Si dà il caso che sia il nipote del Re, il Capitano della squadra armata più pericolosa di Blunder… nonché colpevole di alto tradimento.

Insieme, Elspeth e il Capitano dovranno radunare le dodici Carte della Provvidenza – la chiave per la cura che cercano all’infezione di magia oscura.

Ma mentre la posta in gioco si alza e l’innegabile attrazione che sobbolle fra di loro si intensifica, Elspeth è costretta a confrontarsi con una verità ormai innegabile: l’Incubo sta iniziando a impadronirsi completamente della sua mente.

E non è detto che lei sia in grado di fermarlo…



“One Dark Window”: la recensione

A essere sinceri, “One Dark Window” ha tutte le carte in regola per piacere a un’abbondante porzione di pubblico. Mi riferisco, in modo particolare, a tutti coloro che amano il romance (che poi sarebbe un parente strettissimo del genere gotico: sono la prima ad ammetterlo…).

Dopotutto, lo sviluppo del crescente legame di amicizia e attrazione fra Elspeth e il Capitano incarna senz’altro l’aspetto più approfondito e riuscito del libro.

Del resto, a mio avviso anche il sistema magico – basato su una serie di carte stregate, in grado di garantire ai loro possessori una vasta serie di attribuiti sovrannaturali – risulta piuttosto intrigante e convincente.

Intendiamoci, arrivare in fondo a questo primo volume non mi ha affatto aiutato a sbarazzarmi dal crescente sospetto che Rachel Gillig non sappia bene cosa farsene, di questo interessante sistema magico.

Se c’è una cosa che “One Dark Window” riesce abbondantemente a mettere in chiaro, è che le scene d’azione e il conflitto contro le forze antagoniste sono quasi un supplemento, un qualcosa da porre sullo sfondo mentre la protagonista e il suo love interest flirtano e si fanno bonariamente prendere in giro da tutti i loro amici e parenti per la loro insopportabile inclinazione a tubare come colombe.

Dal mio punto di vista, si tratta di uno spreco di potenziale evidente.

Ma, ovviamente, mi rendo conto che non tutti i lettori saranno inclini a pensarla nello stesso modo…


Una lacrima sul viso

La caratterizzazione del personaggio di Elspeth è la cosa che mi è piaciuta meno, in assoluto.

Ricordi quando abbiamo parlato di come si costruisce la scena di una storia?

Ebbene, Rachel Gillig dimostra sicuramente una grandissima abilità, da questo punto di vista. In effetti, malgrado il mio scarsissimo livello di empatia nei confronti dei suoi personaggi, ho trovato le singole scene relativamente coinvolgenti e “facili” da leggere. Merito di una solidissima struttura narrativa, il segno distintivo di un’autrice preparata e determinata a lavorare sodo.

Ma soffermiamoci un momento a considerare quella particolare fase di una scena che siamo abituati a chiamare “crisi del personaggio”.

«Sono le scelte che compiamo nel momento di massima pressione a definire chi siamo, a svelare la nostra vera natura

Considero questo assioma una delle più sacrosante verità fondamentali dell’esistenza; una di quelle “regole” che valgono tanto nel campo della vita reale, quanto in quello della fiction.

E che cosa fa la protagonista di “One Dark Window”, ogni volta che un minimo di pressione – un ostacolo, una difficoltà, un conflitto anche insignificante – arriva a interferire con il normale corso della sua giornata?

Frigna. Si lagna. Sviene. Si torce le mani, crolla in ginocchio e invoca aiuto. Da parte della provvidenza, del mostro, del suo ombroso cavaliere… di chiunque sia in ascolto. Purché non tocchi a lei prendere l’iniziativa.

Lo ribadisco: Ogni. Santissima. Volta.

Fino a incarnare la perfetta quintessenza della (stereotipata) damina vittoriana, una silenziosa lacrima che scorre su una guancia a indicare il massimo grado di resistenza a qualsivoglia tipo di avversità.

(E chiunque non riesca a intuire il livello di problematicità insito in una caratterizzazione di questo tipo, si consideri caldamente invitato a guardare “The Menu” e a leggere le dichiarazioni di Anya Taylor-Joy circa il suo ruolo nel brillante film di Mark Mylod).

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