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“Under the Bridge”: la mini-recensione della serie tv disponibile su Disney+


under the bridge - recensione miniserie

Titolo: Under the Bridge

Genere: Crime/Drammatico

Anno: 2024

Piattaforma: Disney+

Format: Miniserie

Cast: Riley Keough, Lily Gladstone, Vritika Gupta, Chloe Guidry, Izzi G., Javon Walton.


Di cosa si tratta:

“Under the Bridge” è una miniserie in 8 episodi, liberamente ispirata al brutale omicidio della quattordicenne Reena Virk.

L’omonimo libro di Rebecca Godfrey (interpretata, nello show, dalla Riley Keough di “Daisy Jones & the Six”) rappresenta il punto di riferimento di tutta la trama. In realtà, la serie prevede l’inclusione di personaggi, situazioni e colpi di scena che non hanno nulla a che fare con quanto avvenuto nella vita reale.

La storia è ambientata nel 1997. La scrittrice Rebecca torna nella sua cittadina natale, nel pieno della Colombia Britannica canadese, per scrivere un libro ispirato a una traumatica vicenda del suo passato.

Ma quando nel fiume si materializza il cadavere di Reena, una problematica ragazzina locale, la donna si lascia risucchiare dalle indagini ed entra in contatto con una società degradata e corrotta, piagata da una lunga tradizione di violenza, droga, indifferenza e delinquenza minorile.

Nel frattempo, la poliziotta Cam Bentland (Lily Gladstone) fa del suo meglio per assicurarsi che le indagini vengono condotte nella maniera più regolare e onesta possibile. Ma Reena era figlia di immigrati indiani, testimoni di Geova e tutt’altro che ben inseriti all’interno della comunità locale.

E la triste realtà è che nessuno sembra particolarmente interessato ad assicurare i suoi assassini alla giustizia…


“Under the Bridge”: la recensione

Non è una buona idea guardare “Under the Bridge” per l’elemento crime.

Non fraintendermi: c’è sicuramente qualcosa di ipnotico in questa serie. L’ho apprezzata moltissimo; a partire dalle (intensissime) interpretazioni delle due attrici protagoniste, che hanno una chimica magnetica e meritano tutte le lodi ricevute dalle critica e anche di più. Soprattutto Lily Gladstone che, con “Killers of the Flowers Moon” e “Fancy Dance“, in realtà aveva già rivelato al mondo le sue doti artistiche straordinarie.

Ma “Under the Bridge” si fa notare soprattutto per la forza delle sue tematiche, che ti colpiscono come il proverbiale pugno nello stomaco. Scrive Variety, in maniera decisamente eloquente: «La serie ci ricorda l’angoscia che provano gli adolescenti quando vengono respinti, specialmente le ragazze – e come questo sentimento possa trasformarsi, poi, fino a diventare qualcosa di grottesco. Senza una giusta guida o un orecchio pronto ad ascoltare, il tormento che (i ragazzi) finiscono per infliggersi l’un l’altro sembra, in molti modi, inevitabile.»

Ed è proprio così.

La cosa che colpisce di più, guardando “Under the Bridge”, non ha nulla a che fare con parole come “suspense” o “mistero”. Non vai avanti con gli episodi della serie perché non hai la più pallida idea di cosa sia successo o di chi abbia potuto fare del male a Reena. Le risposte a queste domande sono proprio lì, abbastanza chiare ed evidenti sotto gli occhi di tutti.

No, quello che ti si imprime nella memoria, sopra ogni altra cosa, è il ritratto lacerante di questi ragazzini abbandonati a se stessi, totalmente alla sbaraglio; costretti a crescersi praticamente da soli, facendo affidamento soltanto sulle regole del branco e l’uno sull’altro.


Un mondo senza adulti

Sembra una distopia, lo scenario da incubo entro cui si si svolgono gli eventi narrati in “Under the Bridge”. Un quadro in cui l’incapacità degli adulti di relazionarsi con i ragazzi sotto la loro custodia, alla fine, miete molte più vittime di un’edizione speciale degli Hunger Games. Uno squallore che ti riempie di tristezza di orrore; tant’è che, nonostante l’assenza di scene dal taglio esplicito, ammetto di aver trovato gli ultimi episodi di “Under the Bridge” emotivamente difficili da affrontare.

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“Fancy Dance”: la recensione del (bellissimo) film con Lily Gladstone


fancy dance - film recensione

Titolo: Fancy Dance

Regia: Erica Tremblay

Anno: 2024 (in Italia)

Genere: Drammatico

Cast: Lily Gladstone, Isabel DeRoy-Olson, Shea Whigham, Crystle Lightning, Ryan Begay.

Di cosa si tratta:

Quando la sorella scompare, lasciandosi dietro una figlia di tredici anni, la trentenne Jax fa del suo meglio per prendersi cura della nipote al meglio delle sue possibilità. Ma mentre distribuisce volantini e cerca di convincere le autorità a portare avanti le ricerche (cosa che né la polizia tribale, né l’FBI sembrano intenzionate a fare…), i servizi sociali si fanno avanti per portarle via la custodia di Roki.

Affidano dunque la ragazzina alle cure del nonno bianco Frak e della sua nuova moglie, sradicando completamente la piccola dalla sua vita, trascorsa al fianco di madre e zia all’interno della riserva Seneca-Cayuga, in Oklahoma.

Ma Jax non ha nessuna intenzione di arrendersi…


“Fancy Dance”: la mini-recensione

Avevo in programma di parlarti di “Inside Out 2 “, oggi. Sinceramente! Ma poi ho avuto un flash e mi sono detta: sul serio? C’è davvero qualcuno che avverte ancora il bisogno di leggere altri commenti a proposito del film più chiacchierato e popolare del momento?

Voglio dire, non fraintendermi: “Inside Out 2” è un film fantastico! Se non l’hai ancora visto – cosa di cui dubito – precipitati in sala e preparati a trascorrere un paio d’ore in compagnia delle tue Emozioni più irresistibili e colorate!

Ieri sera, però, ho visto questo piccolo, struggente film di Erica Tremblay. Un titolo che è riuscito ad arrivare in Italia soltanto grazie ad Apple+, nonostante la presenza nel cast della recentemente nominata agli Oscar Lily Gladstone. Una pellicola che mi ha colpito, e che mi ha spinto a riflettere su parecchi temi importanti, quali l’elaborazione del lutto e l’ingiustizia sociale.

E allora, mi sono detta, perché non provare a buttare giù una mini-recensione di “Fancy Dance”, invece… nella speranza di incoraggiarti a concedere una possibilità a questo film così bello e toccante, ma anche destinato, qui da noi, a passare praticamente inosservato?

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“Madame Web”: breve recensione (alternativa) del cinecomic con Dakota Johnson


madame web recensione

Titolo: Madame Web

Regia: S. J. Clarkson

Anno: 2024

Genere: Fantasy/Cinecomic

Cast: Dakota Jonhson, Sidney Sweeney, Isabella Merced, Celeste O’Connor, Emma Roberts, Adam Scott.

Di cosa si tratta:

New York, Anni Settanta. Cassie è un giovane paramedico. Sua madre, una brillante ricercatrice, è morta nel corso di una spedizione organizzata per indagare sulle straordinarie virtù curative di un ragno originario dell’Amazzonia.

Cassie non sa nulla del mondo degli aracnidi. Ma quando un incidente sul lavoro mette in pericolo la sua vita, i suoi poteri latenti iniziano a svegliarsi, consentendole di vedere nel futuro attraverso una fitta ragnatela di ricordi, visioni e suggestioni.

Mini-recensione:

Dopo aver sentito parlare male di questo cinecomics targato Marvel/Sony per mare e per terra, mi sono finalmente decisa a concedere al film un’occasione. Ammetto di aver esitato, probabilmente più del dovuto.

Ma quando è la stessa attrice protagonista a insultare un progetto, arrivando al punto di definirlo una sorta di offesa all’intelligenza dello spettatore (o qualcosa del genere), effettivamente un dubbio esistenziale magari comincia pure a venirti.

Ieri sera, però, ho approfittato di un’offertona per il noleggio su Prime Video e l’ho visto. E… Che dire? Mi sento forse sminuita nell’intelletto? Mortalmente oltraggiata al pensiero di aver trascorso un paio d’ore spensierate al cospetto di un normalissimo blockbuster hollywoodiano, mediamente cretino, pieno di dialoghi ai confini del cringe e di lacune a livello di sceneggiatura?

Non so, ditemi voi: vi sembro forse un critico di film d’essai?

Voglio dire, nelle scorse settimane ho visto “The Palace” di Roman Polaski e “Drive- Away, Dolls” di Ethan Coen. Li ho trovati tutti e due al livello di un cinepanettone; se non ho detto addio alle mie ultime cellule cerebrali in nessuna di quelle occasioni, non sarà stata certo “Madame Web” a impartire il colpo di grazia!

In realtà, il film di S. J. Clarkson mi è sembrato un normalissimo film per famiglie, appena un po’ meno ispirato, patinato e giggione del solito. Cioè, il villain è un perfetto idiota e il combattimento finale ti fa venire voglia di intonare una preghiera agli Avengers, ma l’interpretazione di Dakota Johnson mi è sembrata molto cool e spigliata, la trama carina (anche se male assemblata) e il messaggio finale decisamente adorabile.

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“Un fantasma in casa”: la recensione del film disponibile su Netflix


un fantasma in casa - recensione - netflix

Non so fino a che punto la mia recensione di “Un fantasma in casa” potrà aggiungere qualcosa a quanto già detto da tanti altri.

Per una volta, infatti, sento di poter concordare appieno con la maggior parte del pubblico e della critica internazionale: il film di Christopher Landon è un mezzo flop, un semplice prodotto “riempitivo” da propinare ai bambini nel corso di un’uggiosa domenica pomeriggio.

Non che manchino un paio di gag particolarmente riuscite, intendiamoci. Il cast è interessante, e sicuramente le dinamiche fra il giovane protagonista e il suo amico fantasma riescono a intenerire al punto giusto.

Eppure, nel complesso, trovo che “Un fantasma in casa” fallisca nell’unico compito che aveva il “dovere” di assolvere: divertire il pubblico, regalandogli un paio d’ore spensierate all’insegna di buoni sentimenti e magia…


La trama

La famiglia dell’adolescente Kevin (Jahi Winston) si è appena trasferita in una sinistra magione scricchiolante.

I Presley hanno avuto un po’ di problemi economici, ultimamente; soprattutto a causa delle ripetute (e improbabili) trovate “imprenditoriali” di Frank (Antony Mackie), il padre di Kevin.

Il giovane protagonista non riesce a perdonare ai genitori i continui fallimenti e gli inevitabili traslochi da un capo all’altro della nazione. Anche per questo, il suo rapporto con la famiglia e con i coetanei sta diventando sempre più teso e ricco di fraintendimenti.

Almeno fino a quando, vagolando di notte nella sua nuova casa, Kevin non si imbatte nel fantasma di uno stempiato (e smemorato) giocatore di bowling di nome Ernest (David Harbour).

Mentre Frank fa di tutto per sfruttare la presenza dello spettro a proprio vantaggio e trasformarsi nel nuovo divo di Internet, il nostro eroe decide di aiutare il povero Ernest a venire a capo delle misteriose circostanze che avvolgono la sua morte.

Malgrado le interferenze di una suadente presentatrice televisiva (Jennifer Coolidge) e di un’ex agente della CIA fissata con l’aldilà (Tig Notaro), fra i due sboccerà una bella storia di amicizia sovrannaturale.


“Un fantasma in casa”: la recensione

Per come la vedo io, il disperato tentativo di guadagnarsi un posto all’interno del collaudato filone “viva gli anni Ottanta!” finisce con il compromettere pesantemente l’identità del film.

Di Landon avevo apprezzato tanto le commedie horror “Auguri per la tua morte” e “Freaky”. Un po’ meno, per usare un eufemismo, mi aveva convinto la sceneggiatura del film “L’Esorcismo della mia migliore amica” (vale però la pena ricordare che, in quel caso, Landon era coinvolto soltanto nelle vesti di produttore esecutivo).

Non saprei dire che tipo di speranze covassi nei confronti di un progetto come “Un fantasma in casa”. Dopotutto, il titolo, di per sé, risulta abbastanza autoesplicativo, no?

Eppure, considerando i precedenti del regista/sceneggiatore, probabilmente speravo in un film con un pizzico di… personalità in più, se riesco a spiegarmi?

Invece, devo ammettere che lo scarso senso dell’umorismo e la debolezza del plot mi hanno spiazzato. Per non parlare dell’incapacità dello script di armonizzare spunti che sembrano tratti da una mezza dozzina di fonti di ispirazione diverse.

In realtà, secondo me, le gag più divertenti sono quelle che inseguono un trend tutto contemporaneo: prendere allegramente in giro il folle mondo dei social!

Ma fino a che punto è possibile continuare a tifare per i protagonisti di un film che non sembra in grado di scegliere fra la necessità di portare fino in fondo il proprio (demenziale) concept, e l’inspiegabile tentazione di prendersi troppo sul serio?

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“Extraordinary”: 5 cose che uno scrittore di libri new adult può imparare guardando la prima stagione


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La prima stagione di “Extraordinary” è stata la mia serie tv-rivelazione di gennaio.

A mio avviso, infatti, l’incredibile qualità della sceneggiatura – fresca, graffiante, irriverente… totalmente fuori di testa! – basta e avanza a compensare tutti i suoi (piccoli) difetti a livello tecnico e recitativo.

La trama dello show distribuito su Disney+ verte intorno alle tragicomiche disavventure quotidiane di Jen (Máiréad Tyers), uno dei pochi esseri umani privi di superpoteri in un mondo in cui persino il postino, o la tua amichevole fornaia di quartiere, avrebbe le carte in regola per presentare domanda d’assunzione presso il locale team degli Avengers.

Come saprai, non è la prima volta che la Disney decide di affrontare il tema supereroistico dal punto di vista dell’”escluso” (coff coff… “Encanto”… si schiarisce la voce…).

Eppure, dammi retta…

Sulla piattaforma di Topolino, non hai mai visto nulla di remotamente simile a “Extraordinary”! Un coming-of-age arguto e dissacrante, sulla scia di folli show televisivi come “Fleabag” o “The Flight Attendant”.

E se sei uno scrittore alle prime armi…

Assicurati di guardare la serie tv creata da Erin Moran almeno due volte, e in lingua originale. Da uno show come questo, fidati di me, c’è sempre e solo da imparare…


1. Vedi alla voce “drama queen”: ovvero, come scrivere un personaggio femminile forte, ma totalmente fuori controllo

Come dicevo, ritengo la sceneggiatura di “Extraordinary” estremamente brillante; a partire dal modo in cui sceglie di caratterizzare i suoi personaggi e, in modo particolare, la sua protagonista, Jen.

Un’antieroina disastrosa, anche a voler arrotondare la stima per difetto. Un autentico trainwreck, un riepilogo ambulante di contraddizioni, difetti e nevrosi tipici dell’età contemporanea.

All’inizio di questa prima stagione, Jen ha un carattere orrendo, un modo di fare destinato a ispirare nello spettatore tanto imbarazzo e fastidio, quanta ineluttabile empatia.

Per non parlare della sua marcata inclinazione all’autolesionismo e allo zerbinaggio compulsivo, o della sua all’incredibile capacità di stringere legami inutilmente complicati con chiunque le capiti a tiro.

Certo: ha grinta da vendere, Jen, e un singolare, goliardico spirito dell’umorismo metropolitano.  E poi, vuole davvero bene ai suoi amici, anche se non sempre è in grado di dimostrarlo.

Ma Jen è anche un’imbecille patentata, piena di complessi e di paure infantili che le rendono la vita un inferno. Cose che la spaventano e che la spingono ad agire d’impulso, commettendo gli sbagli più catastrofici che tu possa immaginare.

Insomma, per farla breve: Jen – per quanto a tratti possa risultare ridicola, antipatica, egocentrica, perfino odiosa – è un essere umano a tutto tondo, l’incarnazione stessa del concetto di ANTI-Mary-Sue.

Di più: è una donna dei giorni nostri, una sorta di “specchio” deformante in grado di restituirci un’’immagine ingigantita, ma perfetta, di tutti i nostri più grandi difetti.

Lontana anni luce da ogni stereotipo di genere, insomma.

E, perciò, totalmente irresistibile.


2. Come porre le basi per un solido arco trasformativo del personaggio

Ricordi quando abbiamo parlato dei prerequisiti necessari allo sviluppo di un buon arco trasformativo del personaggio?

Da questo punto di vista, la protagonista di “Extraordinary” non si fa mancare assolutamente nulla.

Jen, infatti, può contare su:

  • Una persistente Bugia che l’affligge sin dai tempi dell’adolescenza (la certezza strisciante di valere poco e niente, a causa della sua mancanza di superpoteri);
  • Una Ferita Emotiva contenuta nel suo background (la spiccata e implacabile preferenza dimostrata da sua madre nei confronti di sua sorella minore, Andy);
  • Un Oggetto del Desiderio superficiale, in grado di alimentare e “mandare avanti” la trama di questa prima stagione (tentare in ogni modo di sbloccare i suoi poteri latenti. Jen, infatti, è convinta che trasformarsi in un super-donna le permetterà di raddrizzare il corso della sua vita);
  •  Una Verità capace di ribaltare la Bugia (che uno abbia la superforza o la capacità di riavvolgere il tempo, o nessuna dote speciale in assoluto, la sostanza non cambia: la vita di ognuno di noi è una specie di farsa grottesca, pronta a farci ridere o piangere a seconda della prospettiva. Imparare a perdonare e a voler bene – agli altri, ma prima di tutto a noi stessi – è l’unico modo per cavarsela).

Mi segui?

Per passare dalla Bugia alla Verità, Jen dovrà compiere innumerevoli passi falsi e subire penose batoste.

Ma sarà proprio la sua capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta, in ultima analisi, a rendercela così cara e vicina (per approfondire l’argomento, ti rimando all’articolo “Come scrivere un protagonista indimenticabile: dalla “ferita emotiva” alla scoperta della propria verità“).

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“The Pale Blue Eyes: I Delitti di West Point”: la recensione del film disponibile su Netflix


the pale blue eyes delitti di west point - recensione

Come iniziare la recensione del film “The Pale Blue Eyes: I Delitti di West Point”, senza permettere alla delusione di infiltrarsi nelle mie parole, condizionando il resto dell’articolo?

Ammetto che non sarà un’impresa facile. Nel senso che la pellicola targata Netflix mi è sembrata talmente “sbiadita”, posticcia e insapore, da farmi sospettare che le mie impressioni personali potrebbero tranquillamente essere riepilogate in un semplice: «Meh!».

In effetti, il mistery storico di Scott Cooper – basato su un romanzo di Louis Bayard, senz’altro una delle uscite thriller più attese di gennaio – può contare su una piacevole estetica gotico-americana e su una coppia di anticonvenzionali detective protagonisti.

Ma non posso negarlo: la gravità delle atmosfere mi ha stordito come una trave in testa e la trama, dal canto suo, non è riuscita a sorprendermi neanche per un minuto.

Il secondo atto, in modo particolare, mi è sembrato un coacervo di banalità senza capo né coda. Anche perché il mistero della morte dei cadetti di West Point non è destinato a intrigare assolutamente nessuno.

Come se non bastasse, la tremenda banalità del finale (una soluzione narrativa decisamente sciatta, già vista e stra-vista in decine di occasioni) mi ha lasciato con uno sgradevole senso di amaro in bocca…


La trama

È il 1831, e il corpo senza vita di un cadetto dell’accademia militare di West Point è appena stato trovato appeso a un albero.

Gli indizi sembrerebbero puntare verso un caso di suicidio. Sennonché, ore dopo il ritrovamento, uno sconosciuto si introduce in obitorio e sottrae il cuore del soldato morto.

Per difendere la scuola da un potenziale scandalo, il comandante dell’accademia manda a chiamare Augustus Landor (Christian Bale) un investigatore veterano ormai in pensione. Malgrado i suoi problemi famigliari e una spiccata propensione per il vizio del bere, Landor accetta di occuparsi del caso.

Durante le indagini, il nostro eroe si imbatte in un eccentrico e brillante cadetto con il pallino per la poesia. Il nome del giovane è Edgar Allan Poe (Harry Melling), e il loro incontro segnerà l’inizio di un sodalizio destinato a svelare le oscure trame che circondano la vita dell’accademia…



“The Pale Blue Eyes: I Delitti di West Pont”: la recensione del film

Christian Bale è un ottimo attore. Lo sappiamo tutti: alzi la mano l’appassionato di cinema che non si è ritrovato, almeno una volta, ad ammirare a occhi sgranati il suo straordinario trasformismo e la sua magnetica presenza scenica.

Eppure, in “The Pale Blue Eyes: I Delitti di West Pont”, perfino l’incredibile talento dell’attore britannico viene imbrigliato e costretto al servizio di una sceneggiatura che ce la mette davvero tutta per risultare ombrosa, fosca e tormentata. Senza accorgersi (o curarsi) della scia di tedio e prevedibilità imbarazzante che si sta invece lasciando alle spalle.

Così, si limita a enunciare le parole lentamente, il Landor di Christian Bale; nello sforzo evidente di caricare una serie di dialoghi che di misterioso, o inaspettato, in realtà hanno ben poco.

E che dire di Edgar Allan Poe, il personaggio-chiave, quello che sta alla base dello stesso high concept del film?

L’autore de “Il Cuore Rivelatore” e “Il Corvo”, trasformatosi per l’occasione in brillante detective dall’indole gentile.

E che colpo al cuore, la sua caratterizzazione! Un ragazzo esile e pallido, tormentato dai bulli, che arriva piano piano a incarnare la quintessenza del Giovanotto-Timido-Ma-Adorabile.

Il genere di dolce e simpatico fanciullo che ti piacerebbe veder convolare a nozze con la tua cugina preferita, per intenderci; nulla a che spartire con il poeta maledetto entrato a far parte del mito, o con l’uomo perseguitato dai disagi psicologici – e dalla terribile infelicità esistenziale – che la storia ci ha tramandato…

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“Omicidio nel West End”: 5 cose che uno scrittore di gialli può imparare guardando il film di Tom George


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Omicidio nel West End” (“See How They Run”, 2022) è approdato su Disney+ da poco, per la gioia di ogni fan del giallo in generale, e delle pièce di Agatha Christie in particolare.

Se ti diletti nell’arte della scrittura di murder mistery e non l’hai ancora visto, ti consiglio caldamente di rimediare.

Difficile considerare il film un capolavoro della settima arte, intendiamoci. Ma la sceneggiatura è senz’altro in grado di vantare un paio di momenti brillanti e una serie di colpi di scena esilaranti. Non credo proprio che avrai motivo di restare deluso, o rimpiangere il tempo speso per la visione.

Anche perché – ormai dovremmo saperlo bene – è sempre possibile imparare ALMENO cinque preziose lezioni di storytelling da qualsiasi libro letto, da ogni film o serie tv che vediamo.

Che cosa ne pensi, allora? Sei pronto a scoprire tutto ciò “Omicidio nel West End” potrebbe insegnarci?


1. Il sottogenere del “buddy cop” resta, oggi come in passato, un’ottima ricetta per il successo

Gran parte dell’empatia che lo spettatore di “Omicidio nel West End” arriva a provare nei confronti dei personaggi, passa attraverso il legame che comincia pian piano a svilupparsi fra i membri della «strana coppia» di investigatori interpretati da Sam Rockwell e Saoirse Ronan.

Due buffi personaggi (ma anche tragici, a loro modo…), che rappresentano una serie di valori e atteggiamenti completamente agli antipodi: lui cinico, svogliato, sbevazzone e vagamente imbolsito; lei zelante, ottimista, goffa e fin troppo pronta a “scattare” (soprattutto verso un sacco di conclusioni improbabili).

Le interazioni fra questi due personaggi, così riconoscibili e “familiari” per il grande pubblico (eppure, al tempo stesso, così rassicuranti, così piacevoli, così umani….) permettono l’inserimento di un gran numero di siparietti comici.

Contemporaneamente, però, aprono anche la strada per una serie di dialoghi che ci permettono di sbirciare nella sfera privata dei due detective e di intuire la profonda vulnerabilità (e l’inesprimibile malinconia) che, in fondo, incarna un po’ l’essenza di entrambi.

Aumentando, di fatto, le probabilità di riuscire a innescare un’autentica connessione emotiva fra il pubblico e l’opera.

Dopotutto, c’è un motivo, se quello del “buddy cop” è sempre stato uno dei sottogeneri più popolari e frequentati.

Stiamo parlando di un “modello” che affonda le radici nel trope universale delle personalità opposte che si attraggono (anche solo in senso amicale). Uno strumento potentissimo, a cui non dovresti avere paura di ricorrere, nel caso in cui la natura specifica dell’intreccio a cui stai lavorando ne preveda l’occasione.

Capisci cosa intendo dire, vero?

Prova a pensare ai migliori film “buddy cop” che tu abbia mai visto: “Point Break”, “Bady Boys”, “Corpi da Reato”, Zootropolis”, “Rush Hour”, “Hot Fuzz”…

Prova a farci caso: di tutti questi titoli, quali sono gli elementi che ti sono rimasti nel cuore? I minuziosi dettagli dell’intreccio, magari?

Oppure l’eccentrico, spassoso, irresistibile rapporto a base di amore fraterno, battibecchi e rivalità che teneva insieme i due protagonisti?

Certo, esistono anche buddy cop terrificanti!

Day Shift”, il mediocre urban fantasy di Netflix con Jamie Foxx e Dave Franco, ne rappresenta una delle prove più recenti.

Ma ti assicuro che il problema, in quel caso, risiede soltanto nella povertà di esecuzione.

La ricetta, dal canto suo, resta perfettamente valida.


2. Sfondare la quarta parete va bene… se sai come farlo!

In almeno un’occasione, un personaggio di “Omicidio nel West End” si rivolge direttamente al pubblico, infrangendo quella che, in gergo cinematografico, prende spesso il nome di “quarta parete”.

Il suo modo di fare, così giocoso e cospiratorio, risulta sicuramente molto accattivante. Rappresenta anche, peraltro, un richiamo diretto al finale dell’opera teatrale “Trappola per Topi” di Agatha Christie.

Si tratta di un effetto piuttosto simpatico ed efficace, nessun dubbio al riguardo. Ti avverto, però: cercare di sfondare la quarta parete può trasformarsi in un’arma a doppio taglio nel giro di un microsecondo.

Narratori più esperti di me e di te ci sono cascati, e corre voce che l’eco del tonfo che hanno fatto echeggi ancora nell’urlo del vento, nel corso delle più nere notti d’inverno.

Perciò,  se sei un autore alle primissime armi, ti sconsiglio vivamente di tuffarti a testa bassa in questa direzione: anziché raggiungere l’effetto sperato, potresti asfissiare la sospensione dell’incredulità del tuo lettore con tutta l’allegra incoscienza di uno sterminatore di topi che fischietta allontanandosi dalla scena del crimine.


3. Come ti uso (e perculo) la tecnica del foreshadowning

Più avanti, dedicheremo senz’altro un articolo più approfondito all’uso del foreshadowing, un meccanismo narrativo che permette all’autore di suscitare un elettrizzante (quanto inconscio, nella maggior parte dei casi…) senso di anticipazione.

Per adesso, ti esorto semplicemente ad analizzare il modo in cui la sceneggiatura di “Omicidio nel West End” riesce a prenderci tutti per il naso, semplicemente ricorrendo a questa tecnica… nel modo più sfacciato e provocatorio possibile!

Mi sto riferendo, ovviamente, alla scena dello storyboard escogitato dallo sgradevole regista Köpernick.

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“Goodnight Mommy”: la recensione del film horror disponibile su Prime Video


goodnight mommy recensione - remake

Non pensavo che mi sarei trovata a scrivere una recensione di “Goodnight Mommy” nel 2022; in parte, perché ignoravo che Hollywood avesse messo in cantiere un remake, una nuova versione del terrificante film del 2014 diretto da Veronika Franz e Severin Fiala.

Invece, la pellicola di Matt Sobel è sbarcata su Amazon Prime Video da pochi giorni, giusto in tempo per la tradizionale e imminente maratona annuale halloweeniana.

Ora…

Molti critici hanno descritto il film come “inutile” e “non necessario”, e non sarò certo io a sostenere il contrario.

Dopotutto, cercare di paragonare il remake all’originale può concludersi soltanto in un modo: vale a dire, attribuendo il giusto credito alla schiacciante superiorità del “Goodnight Mommy” austriaco.

Tuttavia, mi rendo anche conto del fatto che sto parlando da fan decennale del genere, e che di sicuro non tutti gli abbondati Prime Video avranno avuto la possibilità di ammirare il piccolo cult di Franz e Fiala.

In realtà, questo remake riesce a regalare diversi momenti genuinamente inquietanti e spaventosi.

Si capisce, l’opera di Sobel non è neanche remotamente ambigua, brutale o disturbante quanto la versione originale! Soprattutto perché la (tiepida) sceneggiatura lascia parecchio a desiderare…

Tuttavia, ritengo che l’ottima interpretazione di Naomi Watts, combinata a un paio di scene dal taglio decisamente luciferino, sia comunque in grado di giustificare il tempo speso per la visione…


La trama

I piccoli Elias (Cameron Crovetti) e Lukas (Nicholas Crovetti) si recano in visita dalla madre (Naomi Watts), presso un’isola località di villeggiatura.

I bambini non vedono la donna da diverso tempo, per cui restano molto stupiti nel ritrovarsi davanti una mamma bendata e sulla via di recupero, ancora tormentata dai postumi di un complicato intervento di chirurgia estetica.

Non che ci sia tantissimo di cui meravigliarsi, in realtà: dopotutto, la loro madre è sempre stata un’attrice piuttosto famosa e, come tale, costretta a sottoporre di continuo il suo aspetto a tutti i piccoli aggiustamenti del caso.

Tuttavia, nel giro di poco tempo, i ragazzi cominciano a intravedere qualcosa di profondamente sinistro nell’atteggiamento della donna.

È come se la mamma affettuosa, premurosa e piena di energie che Elias e Lukas conoscevano fosse completamente svanita, assorbita da quelle fasce spaventose che le celano costantemente il viso.

Al posto di quella genitrice amorevole sembra aggirarsi, adesso, una creatura isterica, fredda e collerica; qualcuno che ha poco a cuore il suo legame con i figli e che, anzi, a volte sembra a malapena in grado di tollerare l’idea di guardarli.

Una donna che non ha paura di lasciarsi andare a esplosioni di violenza imprevista, o di ricorrere a brusche punizioni corporali.

Che cosa succedendo alla madre di Elias e Lukas?

Possibile che sia stata… sostituita?

Ma da chi?

Chi è la sconosciuta – persona o creatura – che sta cercando di impersonarla, e per quale motivo ha deciso di farlo?


“Goodnight Mommy”: la recensione

Come dicevo, sospetto che, nel caso di questo film, il pubblico si dividerà nettamente in due squadre: quelli che hanno visto l’originale, e quelli che non avevano mai sentito parlare di questa storia.

Penso che il livello di gradimento sia destinato a lievitare abbondantemente nel secondo caso; anche se, a onor del vero, bisogna ammettere che il “Goodnight Mommy” americano resta un prodotto di intrattenimento abbastanza dozzinale.

Una rielaborazione letterale e poco stratificata della vicenda narrata all’interno della pellicola austriaca, peraltro disposta a rinunciare ai suoi momenti di scioccante crudeltà praticamente senza colpo ferire.

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“My Best Friend’s Exorcism” (recensione): amiche e demoni nel film horror di Prime Video


my best friend's exorcism recensione film

Qualcosa mi dice che scrivere la recensione del film “My Best Friend’s Exorcism” sarà un compito più doloroso del previsto.

In parte, perché ho da poco finito di leggere lo strepitoso romanzo di Grady Hendrix; una commedia horror dai toni energici e sferzanti, con cui ho sviluppato un legame emotivo particolare.

Ma anche perché il film di Damon Thomas (disponibile sul servizio streaming Amazon Prime Video) si è rivelato un adattamento un po’ piatto, e decisamente vigliacco!

L’ennesima sviolinata in chiave matusa&ottusa agli anni Ottanta, purgata di ogni minimo accenno di satira sociale e di ogni graffiante trovata anticonformista escogitata da Hendrix.

Una pellicola anonima e dimenticabile, insomma; di quelle che si lasciano guardare ma non ricordare, e che si ritrovano, loro malgrado, a incarnare il peggio che il classico buonismo commerciale hollywoodiano abbia da offrire…


La trama

Abby (Elsie Fisher) e Gretchen (Amiah Miller) sono due liceali amiche del cuore: abituate a condividere tutto, e pronte a mettere da parte ogni differenza scaturita dai loro rispettivi stili di vita.

Un giorno, Abby e Gretchen raggiungono un gruppetto di amici presso una casa sul lago e assumono delle sostanze stupefacenti di dubbia provenienza.

Nei dintorni, però, si erge un misterioso rudere abbandonato. La leggenda locale vuole che al suo interno, anni prima, un’altra adolescente sia stata sacrificata in nome di Satana.

Incuriosita, Gretchen decide di esplorare la casupola, chiedendo prontamente ad Abby di accompagnarla.

Tuttavia, all’interno della costruzione si nascondono strane forze maligne, pronte a cospirare per separare le due amiche e avvolgere Gretchen nelle loro spire.

Tant’è che, a partire da quel momento, Gretchen cambia completamente atteggiamento e diventa collerica, imprevedibile, vendicativa e capricciosa.

Abby è senza parole. Che cosa è successo alla ragazza dolce e gentile che l’ha sempre supportata e aiutata nei momenti di difficoltà? Perché, tutt’a un tratto, sembra quasi che Gretchen si diverta a fare del male alle persone?

E com’è possibile che un culturista cattolico con il pallino per la lotta agli spiriti del Male (interpretato da Chris Lowell) riconosca in Gretchen la presenza di un’influenza oscura e pericolosa?


“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione del film

Intendiamoci: il film horror di Damon Thomas non è il peggior adattamento di un libro molto amato che io abbia mai visto. Non è neanche il migliore e, di sicuro, non è il più ispirato, il più originale o il più ambizioso.

In realtà, il livello delle interpretazioni è piuttosto buono, anche se Chris Lowell (“Glow”, “How I Met Your Father”…) mi è sembrato l’unico in grado di rendere giustizia al proprio personaggio.

I suoi exploit da esorcista della domenica, infatti, riescono a strappare un paio di risate senza alcuna fatica, incarnando alla perfezione quel perfetto connubio fra ingenuità, fervore e dabbenaggine richiesto dall’ambientazione.

Ma il fatto che la sceneggiatura preferisca volare basso, e depotenziare il significativo apparato metaforico imbastito da Hendrix, gioca senz’altro a detrimento della qualità complessiva della pellicola…

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“Il Diavolo in Ohio”: la recensione della miniserie disponibile su Netflix


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Ha senso scrivere una recensione de “Il Diavolo in Ohio”, una delle miniserie più mediocri e imbarazzanti che Netflix abbia mai prodotto?

Bè, dipende.

In realtà, ritengo che la sceneggiatura dello show di Daria Polatin sia praticamente una sorta di “Guida Non Ufficiale alla Scrittura di Storie che Non Funzionano”.

Un utile “strumento” che gli aspiranti autori potrebbero consultare, in caso di bisogno, per accertarsi di non stare imboccando lo stesso, pericoloso sentiero verso lo sfacelo.

Voglio dire: personaggi imbecilli, un’ambientazione generica, archi narrativi insensati, e un tripudio di colpi di scena che non sarebbero in grado di sorprendere una cara nonnina cresciuta a pane e “Cento Vetrine”?

Benvenuto nella ridente e verde Terra dei Cliché, amico mio!


La trama

Suzanne (Emily Deschanel) è una psicologa che lavora in ospedale, a stretto contatto con le vittime di abusi domestici e con tutti quei pazienti affetti da un trauma profondo.

Un giorno, arriva in corsia una ragazzina dall’aspetto lacero e sanguinante. Dopo qualche tentennamento, Suzanne riesce a spalancare una breccia nelle difese della giovane, e a scoprire che il suo nome è Mae (Madeleine Arthur).

A quanto pare, la ragazza è stata costretta a fuggire dalla sua famiglia, per cercare di sottrarsi a un sanguinario culto di adoratori di Lucifero.

A poco a poco, Suzanne comincia ad affezionarsi sempre di più a Mae, una ragazzina dolce e gentile che non ha nessun al mondo, e che si fida soltanto di lei.

La psicologa decide, quindi, di richiedere ufficialmente la custodia temporanea di Mae, nella speranza di aiutarla a guarire dalle sue ferite emotive e raccogliere prove contro gli uomini e le donne crudeli che l’hanno tenuta prigioniera.

Ma, non appena Suzanne porta a casa Mae, scopre che suo marito e le sue tre figlie non sono per niente felici di questa improvvisa convivenza forzata


“Il Diavolo in Ohio”: la recensione

In realtà, c’è una cosa che sono riuscita ad apprezzare de “Il Diavolo in Ohio”: il modo in cui il plot riesce a “usare” il trauma sepolto nella memoria di Suzanne (il suo “fantasma”, per ricorrere a una terminologia presa in prestito da K. M. Weiland…) per giustificare e motivare le azioni spericolate e anticonvenzionali intraprese dalla protagonista nel corso degli 8 episodi.

Il singolare e intenso legame che si viene a creare fra la psicologa e Mae (di gran lunga il personaggio più affascinante della serie) emana un sentore di transfert su cui qualsiasi psicanalista amerebbe soffermarsi a indagare.

E c’è da dire che la sceneggiatura, per i primi 3 o 4 episodi, riesce a giocare bene con le sfumature e le zona d’ombra innescate da questa simbiotica (e problematica) relazione.

Cioè, magari non con lo stesso livello di empatia e fascinazione magnetica ostentata da pellicole potenti come, chessò, “Ultima Notte a Soho”… ma, comunque, bene abbastanza da rendere piacevole e interessante la visione.

Bè…

Almeno fino a quando un’ondata di finto moralismo medio-borghese, in puro stile ABC Family, non arriva a fare scempio dell’arco trasformativo di Suzanne, POLVERIZZANDO quel minimo sindacale di credibilità che la storia era riuscita miracolosamente a conservare.

L’ultimo atto, in effetti, si rivela abbastanza prevedibile da gettare un lampo rivelatore tanto sulla fragilità della premessa, quanto sulla natura fortemente derivativa del progetto.

Se hai già visto “Il Diavolo in Ohio”, probabilmente avrai notato, ad esempio, un certo parallelismo fra lo show targato Netflix e una famosa scena di una grandiosa serie-evento di qualche anno fa chiamata “Sharp Objects”.

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