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“Ravensong”: la recensione del libro urban fantasy di Cayla Fay


ravensong recensione - cayla fay

La recensione di “Ravensong” di Kayla Fay?

Una parte di me non vedeva l’ora di scriverla. Perché, dal mio punto di vista, questo libro nasconde qualcosa di speciale, ragazzi!

Il mio è il tipo di entusiasmo che non ha nulla a che spartire con la costruzione della trama, la padronanza delle tecniche narrative o la profondità del building.

No, il punto è un altro: una qualità strettamente legata al fattore nostalgia!

E, dal momento che, per una volta, la cosa non è riconducibile tanto a “I Goonies” né ad altre (per quanto piacevoli) frivolezze Anni Ottanta, quanto ai dialoghi semi-demenziali e all’assurda “cringiness” tipicamente Anni Novanta di “Buffy: L’Ammazzavampiri”, posso ben dire di essermi lasciata travolgere dalle divertenti atmosfere di questa adrenalinica commedia YA a tinte sovrannaturali.


La trama

Neve ha trascorso tutte le sue vite all’insegna di un unico scopo: difendere il mondo mortale dalle legioni di demoni che minacciano di traboccare qui direttamente dall’Inferno.

Al suo fianco, soltanto le sue sorelle maggiori, com’è stato dall’inizio del tempo. Perché Neve è una Morrigan e, insieme alle altre due ragazze, compone una triade di divinità della guerra irlandesi.

Solo che, in questa particolare vita, Neve è anche un’adolescente travolta dalle incombenze della scuola. Una che non avrà accesso ai suoi pieni poteri fino a quando non avrà compiuto diciotto anni.

In realtà, Neve conta i giorni che la separano dalla sua piena ascensione. Non desidera altro che di potersi liberare da ogni finzione umana, trasformandosi finalmente nella creatura potente e intoccabile che è sempre stata destinata a diventare.

Fino a quando non si imbatte in Alexandria. Una ragazza squinternata e chiacchierona, che rappresenta il suo esatto opposto e che sembra determinatissima a costringere Neve ad abbracciare una parvenza di adolescenza normale. Il tutto, mentre viene tormentata, a sua volta, da una schiera di demoni… intesi in senso sia figurato, che letterale!

Mentre le due cominciano ad avvicinarsi, Neve decide che l’umanità – e, forse, l’amore – non è una cosa poi tanto detestabile, dopotutto.

Ma questo serve soltanto a rendere la situazione ancora più pericolosa, nel momento in cui realizza che qualcosa, all’Inferno, non vede l’ora di mettere le grinfie su Alexandria.

E spetterà a Neve e alle sue sorelle il compito di salvarla, prima che il passato di Alexandria arrivi a pareggiare i conti con tutta la città…



“Ravensong”: la recensione

Come avrai intuito, il romanzo di Cayla Fay è pieno di riferimenti alla mitologia celtica.

La figura della Morrigan mi ha sempre affascinato, in tutta la sua complessa mitologia a base di vita, distruzione, morte e rinascita. Per cui, mi sono avventata su “Ravensong” in preda a una curiosità a dir poco insaziabile!

In realtà, non sapevo bene cosa aspettarmi. Una storia di formazione in salsa mitologica? Un romance camuffato da libro d’avventura? Non potevo esserne sicura, dal momento che le poche recensioni di “Ravensong” scovate in rete non si sono dimostrate particolarmente generose, in materia di dettagli.

Per cui, alla fine, ho semplicemente letto il libro, e…

Bè, vuoi sapere cosa ho trovato? Una storia per ragazzi dal taglio brioso, scorrevole e avvincente. Una commedia ricca di humor, scoppiettanti riferimenti alla cultura pop e personaggi talmente improbabili da riuscire a rubarti immediatamente il cuore.

Una sorta di via di mezzo, se riesci a immaginarla, fra la compianta serie tv “First Kill” e i romanzi della saga di “Percy Jackson”…


Crazy and campy

Come sempre, parlando di un discendente diretto di “Buffy”, le parole “campy horror” non echeggiano mai troppo lontane. Ma, ovviamente, “Ravensong” rientra perfettamente nella categoria di urban fantasy, con il suo pantheon di divinità segrete e la sua continua sovrapposizione fra il mondo fantastico e quello “reale”.

La trama del libro di Cayla Fay non è particolarmente elaborata, ma riesce comunque a garantire un paio di momenti d’alta tensione e una caterva di sequenze d’azione.

La scrittura non è impeccabile, e sicuramente il romanzo si trascina dietro parecchi difetti costitutivi tipici di ogni romanzo d’esordio (eccessiva tendenza all’esposizione, infodump, una certa tendenza a giocarsi le carte migliori nei momenti sbagliati ecc).

Eppure, a mio avviso, l’inconfutabile umanità dei personaggi, gli ottimi dialoghi e l’eccellente arco narrativo di Neve riescono a far sì che il lettore superi questi elementi senza troppa difficoltà.


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“Godkiller”: la recensione del libro fantasy di Hannah Kaner


godkiller recensione - hannah kaner

Nella recensione di “Godkiller”, il nuovo libro fantasy di Hannah Kaner, troveremo spazio per parlare di:

  • un epico viaggio in stile “La Spada di Shannara”;
  •  una premessa narrativa che ricorda da vicino quella di “The Witcher”;
  • la complessa amicizia fra una bambina e una (apparentemente) pucciosa creatura sovrannaturale, simile a quella che lega Lyra a Pan ne “La Bussola d’Oro”.

Un’opera di chiaro stampo derivativo, quindi?

Mmm…

Forse.

Ma se l’unico motivo per il quale il fantasy anni Ottanta/Novanta ti è sempre riuscito un po’ indigesto è per la sua plateale mancanza di inclusività, direi che “Godkiller” potrebbe essere esattamente la lettura che fa al caso tuo…


Trama

Quando Kissen era bambina, la sua famiglia è stata arsa viva da un gruppo di fanatici religiosi, devoti seguaci di una dea del fuoco.

Non sorprenderà quindi nessuno scoprire che, da grande, Kissen è diventata una “Godkiller”, un’assassina di divinità. Una che ama molto il suo lavoro, peraltro; anche perché è convinta che contribuire allo sterminio delle entità conosciute come “dei” le permetterà di lasciare in eredità alle generazioni successive un mondo migliore.

Fino a quando Kissen non incontra Inara, una ragazzina di origini nobili, e il suo amico Skedi: una creatura magica e alata, per metà coniglio, per metà qualcos’altro, che sostiene di essere un dio delle piccole bugie.

Inara e Skedi sono legati in modi che Kissen non riesce a spiegarsi, e sono entrambi in fuga da una banda di assassini sconosciuti.

In compagnia di un nobile cavaliere alle prese con una missione personale, Kissen, Inara e Skedi dovranno quindi viaggiare fino alle rovine della città di Blendaren, un tempo protagonista della guerra fra uomini e dei, e implorare l’aiuto di una delle poche divinità sopravvissute al conflitto.

Inseguiti dai demoni, e ostacolati dagli esordi di una guerra civile, i quattro eroi dovranno quindi fronteggiare una resa dei conti: perché qualcosa di oscuro sta raccogliendo le forze al centro del mondo e, stavolta, soltanto loro avranno il potere di fermarlo.



“Godkiller”: la recensione

Personalmente, non mi ritengo una grande fan dei prologhi (e chi lo è?); eppure, posso assicurarti che quello di “Godkiller” è uno dei migliori in cui mi sia capitato di imbattermi da parecchio tempo a questa parte.

In perfetto stile Holly Black (che ha replicato il trucco all’inizio del suo ultimo lavoro, “The Stolen Heir”), Hannah Kaner decide, infatti, di capitombolare il lettore nel bel mezzo di un’azione brutale e drammatica: il rogo della famiglia di Kissen.

Dal momento che questa scena si delinea presto, ai nostri occhi, come il trauma da cui ogni ferita emotiva dell’eroina ha avuto modo di svilupparsi, va da sé che si tratta di un passaggio imprescindibile: l’emozionante “retroscena” che innescherà la necessità di Kissen di imbarcarsi in un periglioso viaggio interiore, oltre che pratico e letterale.

Coinvolgente, tesa, incalzante, la scena di apertura di “Godkiller” promette ai suoi lettori un’ambientazione spettacolare, una serie di conflitti mozzafiato, la nascita di un’indimenticabile e tormentata eroina… Tutti quegli elementi in grado di dar vita, insomma, a un imperdibile nuovo “classico” del genere.

Purtroppo, come Skedi potrebbe testimoniare, si tratta in realtà di una piccola “bugia bianca”.

Alla resa dei conti, infatti, il resto del romanzo d’esordio di Hannah Kaner non riesce a giustificare l’eccitante senso di aspettativa generato dalle prime cinquanta, sessanta pagine.

Il pesantissimo apparato descrittivo, il ritmo pachidermico e l’intrinseca tediosità di alcuni personaggi rendono la lettura dei capitoli centrali maledettamente faticosa!

Come se “Godkiller” costituisse, a sua volta, soltanto una sorta di “prologo” all’azione vera e propria….


L’ordalia di Gary Stu

Fino all’arrivo a Blendaren, la quest di Kissen e company si rivela, in effetti, stranamente priva di complicazioni. Un paio di attacchi da parte di creature mostruose a caso, una serie di battibecchi fra innamorati fra la cacciatrice di dei e il suo (odioso) love interest.

E, parlando di Elogast, sinceramente non posso fare a meno di tirare fuori la vecchia battuta che continua a circolare in determinati ambienti letterari di stampo femminista:

«Senti un po’. Come lo chiameresti, tu, un Mary-Sue maschio

«Lo chiamerei… il protagonista

Elogast è il più grande guerriero. Nella metà del tempo che serve a Kissen per ferire un nemico, lui riesce a farne fuori cinque, senza versare una goccia di sudore.

È anche un amico fedele. Il confidente ideale. Un impeccabile dispensatore di consigli di vita. Un panettiere sublime. Un cantante dalla voce dolce e melodiosa.

Ha il corpo statuario, Elogast, nonché il sorriso accattivante e lo sguardo espressivo di un cucciolone.

Sarebbe un padre affettuoso e protettivo; un amante generoso e perfetto; il vicino sempre pronto a prestarti una tazzina di zucchero e bla bla bla, chissà quante altre idiozie su questo tenore!

Il suo più grande (e unico) difetto?

Elogast è troppo nobile. Troppo buono. Troppo sincero.

Ora.

Lo intuisci da te, il problema, giusto?

Nobile”, “buono” e “sincero” non sono affatto difetti da superare. Sono soltanto altre virtù, camuffate da difetti.

Perché il loro palese sottotesto è che sia il MONDO a essere in difetto nei confronti di un uomo così leale, così integerrimo, così… così spettacolare.

Elogast non ha veramente motivo di cambiare. Agli occhi della sua autrice, è già “perfetto” così com’è.

Dunque, per quale motivo un lettore dovrebbe trovare interessanti i suoi (patetici) dilemmi morali, o i diecimila capitoli narrati dal suo punto di vista?

Come potrebbe mai, una persona reale, immedesimarsi in questo cavaliere senza macchia e senza paura, o arrivare a fare il tifo per l’(improbabile) storia d’amore nascente fra lui e Kissen?


Il pianeta delle divinità selvagge

Se un lettore leggesse la mia recensione di “Godkiller” fino a questo punto e poi si fermasse, immagino che potrebbe essere portato a pensare: «Wow! Ma allora l’hai detestato davvero un sacco, questo libro, eh?».

In realtà, no.

Il romanzo di Hannah Kaner ha parecchi lati buoni, e vale senz’altro la pena menzionarli.

Oltre al concept da infarto, di “Godkiller” ho apprezzato tantissimo il worlduilding, il sistema magico e la mitologia.

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“My Best Friend’s Exorcism” (recensione): amiche e demoni nel film horror di Prime Video


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Qualcosa mi dice che scrivere la recensione del film “My Best Friend’s Exorcism” sarà un compito più doloroso del previsto.

In parte, perché ho da poco finito di leggere lo strepitoso romanzo di Grady Hendrix; una commedia horror dai toni energici e sferzanti, con cui ho sviluppato un legame emotivo particolare.

Ma anche perché il film di Damon Thomas (disponibile sul servizio streaming Amazon Prime Video) si è rivelato un adattamento un po’ piatto, e decisamente vigliacco!

L’ennesima sviolinata in chiave matusa&ottusa agli anni Ottanta, purgata di ogni minimo accenno di satira sociale e di ogni graffiante trovata anticonformista escogitata da Hendrix.

Una pellicola anonima e dimenticabile, insomma; di quelle che si lasciano guardare ma non ricordare, e che si ritrovano, loro malgrado, a incarnare il peggio che il classico buonismo commerciale hollywoodiano abbia da offrire…


La trama

Abby (Elsie Fisher) e Gretchen (Amiah Miller) sono due liceali amiche del cuore: abituate a condividere tutto, e pronte a mettere da parte ogni differenza scaturita dai loro rispettivi stili di vita.

Un giorno, Abby e Gretchen raggiungono un gruppetto di amici presso una casa sul lago e assumono delle sostanze stupefacenti di dubbia provenienza.

Nei dintorni, però, si erge un misterioso rudere abbandonato. La leggenda locale vuole che al suo interno, anni prima, un’altra adolescente sia stata sacrificata in nome di Satana.

Incuriosita, Gretchen decide di esplorare la casupola, chiedendo prontamente ad Abby di accompagnarla.

Tuttavia, all’interno della costruzione si nascondono strane forze maligne, pronte a cospirare per separare le due amiche e avvolgere Gretchen nelle loro spire.

Tant’è che, a partire da quel momento, Gretchen cambia completamente atteggiamento e diventa collerica, imprevedibile, vendicativa e capricciosa.

Abby è senza parole. Che cosa è successo alla ragazza dolce e gentile che l’ha sempre supportata e aiutata nei momenti di difficoltà? Perché, tutt’a un tratto, sembra quasi che Gretchen si diverta a fare del male alle persone?

E com’è possibile che un culturista cattolico con il pallino per la lotta agli spiriti del Male (interpretato da Chris Lowell) riconosca in Gretchen la presenza di un’influenza oscura e pericolosa?


“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione del film

Intendiamoci: il film horror di Damon Thomas non è il peggior adattamento di un libro molto amato che io abbia mai visto. Non è neanche il migliore e, di sicuro, non è il più ispirato, il più originale o il più ambizioso.

In realtà, il livello delle interpretazioni è piuttosto buono, anche se Chris Lowell (“Glow”, “How I Met Your Father”…) mi è sembrato l’unico in grado di rendere giustizia al proprio personaggio.

I suoi exploit da esorcista della domenica, infatti, riescono a strappare un paio di risate senza alcuna fatica, incarnando alla perfezione quel perfetto connubio fra ingenuità, fervore e dabbenaggine richiesto dall’ambientazione.

Ma il fatto che la sceneggiatura preferisca volare basso, e depotenziare il significativo apparato metaforico imbastito da Hendrix, gioca senz’altro a detrimento della qualità complessiva della pellicola…

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“La Collezionista di Anime”: la recensione del libro di Kylie Lee Baker


la collezionista di anime recensione - kylie lee baker

È possibile scrivere una recensione de “La Collezionista di Anime”, romanzo fantasy di Kylie Lee Baker, senza affrontare lo spinoso argomento delle traduzioni targate Fanucci?

Ho paura di no.

Perché l’italiano sgangherato e improbabile che caratterizza l’80% del catalogo recente della nota casa editrice romana – incluso questo titolo – sta cominciando a diventare un problema. Non è l’unico motivo che mi impedisce di consigliare ai fan del genere la lettura de “La Collezionista di Anime”, sia chiaro.

Ma è comunque la ragione che mi spinge a dire: «Se volete leggerlo, acquistate l’edizione in lingua originale». Anche se l’oggettiva bellezza della copertina italiana basta a tingere questo consiglio di una lieve sfumatura dolceamara…


La trama

Londra, 1890. Ren Scarborough è per metà Mietitrice, per metà Shinigami. In ogni caso, la sostanza non cambia: raccogliere le anime dei defunti ha sempre fatto parte del suo destino.

Ren è cresciuta a Londra, la città di suo padre. Ma l’unico che sembri avere a cuore il suo destino è il fratellastro, Naven: dal punto di vista di tutti gli altri Mietitori londinesi, infatti, Ren non è altro che una meticcia, un’incapace e una piantagrane, non necessariamente in quest’ordine.

Tant’è che maltrattare Ren è diventato, per molti dei suoi “colleghi” Mietitori, una specie di passatempo del cuore.

Tuttavia, un giorno alcuni di loro commettono l’errore fatale di tirare un po’ troppo la corda; senza volerlo, Ren ricorre quindi ai suoi poteri di Shinagami per fermare le percosse.

Da quel momento in avanti, è come se qualcuno avesse dipinto un bersaglio scarlatto sulla sua schiena.

Ren deve lasciare Londra, e in fretta.

L’unica destinazione possibile? Il Giappone, ovviamente; la terra di sua madre e degli altri Shinigami, l’unico posto al mondo in cui Ren è convinta di potersi liberare di paura e pregiudizi.

Tuttavia, non appena si presenta al cospetto della famigerata Dea della Morte giapponese, la ragazza capisce di aver preso un brutto granchio: di fatto, se vorrà ottenere un posto nel suggestivo e inquietante aldilà nipponico, dovrà guadagnarselo.

Versando sangue; suo e degli altri, ma soprattutto altrui.

E sacrificando anime… quelle degli altri, ma soprattutto la sua.


“La Collezionista di Anime”: la recensione

Sotto alcuni punti di vista, “La Collezionista di Anime” è il libro più noioso e ridondante che mi sia capitato di leggere quest’anno.

Descrizioni statiche e personaggi folcloristici di pochissimo (o nessuno) spessore appesantiscono la prosa di Kylie Lee Baker, una zavorra che minaccia di affondare la trama in più di un’occasione.

Le numerose scene d’azione, blande e strutturate in modo tale da riuscire a esercitare un impatto molto limitato (perché la posta in gioco è sempre troppo bassa o troppo condizionata dalla prospettiva avvelenata di Ren), si avvicendano a un ritmo che può essere decritto come “vertiginoso” nella migliore delle ipotesi, e “dissennato” in tutte le altre.

La trama è un pasticcio, quasi dall’inizio alla fine. Il classico modello del Viaggio dell’Eroe, interpretato nel suo senso più letterale, ma eseguito in modo goffo e alquanto rapsodico.

Come premessa di un plot da videogioco, probabilmente l’idea delle tre prove da assegnare a Ren non sarebbe stata malvagia. Ma ritengo che dovrebbe esistere un limite al numero di volte in cui un personaggio può continuare a risolvere i suoi conflitti usando sempre lo stesso trucchetto (toh, qualcuno per caso ha detto “orologio magico”?!).

Per non parlare della spropositata quantità di dialoghi generici, inutili e infantili che minacciano continuamente di sminuire la storia…


Antieroina, o… inumana?

Perché è sicuramente vero che i tre protagonisti de “La Collezionista di Anime” sembrano decisi a battibeccare come massaie per nessuno scopo al mondo, tranne quello di rivelare al mondo la loro scarsa profondità emozionale

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“Il Diavolo in Ohio”: la recensione della miniserie disponibile su Netflix


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Ha senso scrivere una recensione de “Il Diavolo in Ohio”, una delle miniserie più mediocri e imbarazzanti che Netflix abbia mai prodotto?

Bè, dipende.

In realtà, ritengo che la sceneggiatura dello show di Daria Polatin sia praticamente una sorta di “Guida Non Ufficiale alla Scrittura di Storie che Non Funzionano”.

Un utile “strumento” che gli aspiranti autori potrebbero consultare, in caso di bisogno, per accertarsi di non stare imboccando lo stesso, pericoloso sentiero verso lo sfacelo.

Voglio dire: personaggi imbecilli, un’ambientazione generica, archi narrativi insensati, e un tripudio di colpi di scena che non sarebbero in grado di sorprendere una cara nonnina cresciuta a pane e “Cento Vetrine”?

Benvenuto nella ridente e verde Terra dei Cliché, amico mio!


La trama

Suzanne (Emily Deschanel) è una psicologa che lavora in ospedale, a stretto contatto con le vittime di abusi domestici e con tutti quei pazienti affetti da un trauma profondo.

Un giorno, arriva in corsia una ragazzina dall’aspetto lacero e sanguinante. Dopo qualche tentennamento, Suzanne riesce a spalancare una breccia nelle difese della giovane, e a scoprire che il suo nome è Mae (Madeleine Arthur).

A quanto pare, la ragazza è stata costretta a fuggire dalla sua famiglia, per cercare di sottrarsi a un sanguinario culto di adoratori di Lucifero.

A poco a poco, Suzanne comincia ad affezionarsi sempre di più a Mae, una ragazzina dolce e gentile che non ha nessun al mondo, e che si fida soltanto di lei.

La psicologa decide, quindi, di richiedere ufficialmente la custodia temporanea di Mae, nella speranza di aiutarla a guarire dalle sue ferite emotive e raccogliere prove contro gli uomini e le donne crudeli che l’hanno tenuta prigioniera.

Ma, non appena Suzanne porta a casa Mae, scopre che suo marito e le sue tre figlie non sono per niente felici di questa improvvisa convivenza forzata


“Il Diavolo in Ohio”: la recensione

In realtà, c’è una cosa che sono riuscita ad apprezzare de “Il Diavolo in Ohio”: il modo in cui il plot riesce a “usare” il trauma sepolto nella memoria di Suzanne (il suo “fantasma”, per ricorrere a una terminologia presa in prestito da K. M. Weiland…) per giustificare e motivare le azioni spericolate e anticonvenzionali intraprese dalla protagonista nel corso degli 8 episodi.

Il singolare e intenso legame che si viene a creare fra la psicologa e Mae (di gran lunga il personaggio più affascinante della serie) emana un sentore di transfert su cui qualsiasi psicanalista amerebbe soffermarsi a indagare.

E c’è da dire che la sceneggiatura, per i primi 3 o 4 episodi, riesce a giocare bene con le sfumature e le zona d’ombra innescate da questa simbiotica (e problematica) relazione.

Cioè, magari non con lo stesso livello di empatia e fascinazione magnetica ostentata da pellicole potenti come, chessò, “Ultima Notte a Soho”… ma, comunque, bene abbastanza da rendere piacevole e interessante la visione.

Bè…

Almeno fino a quando un’ondata di finto moralismo medio-borghese, in puro stile ABC Family, non arriva a fare scempio dell’arco trasformativo di Suzanne, POLVERIZZANDO quel minimo sindacale di credibilità che la storia era riuscita miracolosamente a conservare.

L’ultimo atto, in effetti, si rivela abbastanza prevedibile da gettare un lampo rivelatore tanto sulla fragilità della premessa, quanto sulla natura fortemente derivativa del progetto.

Se hai già visto “Il Diavolo in Ohio”, probabilmente avrai notato, ad esempio, un certo parallelismo fra lo show targato Netflix e una famosa scena di una grandiosa serie-evento di qualche anno fa chiamata “Sharp Objects”.

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“Little Eve”: recensione del libro horror di Catriona Ward

Little Eve - recensione - Catriona Ward

Little Eve” è il secondo libro di Catriona Ward, autrice dello straordinario horror psicologico “La Casa in Fondo a Needless Street”.

Una lettura ipnotica e crudele che, per quanto mi riguarda, si è confermata pienamente all’altezza delle aspettative: nel senso che mi ha spezzato il cuore e spinto a rabbrividire fin nel midollo delle ossa!

Ambientato in Scozia, a cavallo fra le due Grandi Guerre, questo appassionante horror storico può essere definito soltanto come un piccolo gioiello di suspense, stile e tensione narrativa.

Una storia tragica, spietata e ammaliante, a metà strada fra “Il richiamo di Cthulhu” e “Abbiamo Sempre Vissuto nel Castello”…


La trama

Eve e Dinah sono sempre state tutto l’una per l’altra. Non si sono mai separate: né di giorno, né di notte.

Le due ragazze sono cresciute all’interno di una comunità di orfani e randagi presieduta da un misterioso predicatore, un uomo che si fa chiamare soltanto “Zio”.

Non conoscono nulla al di fuori della grigia isola di Altnaharra, che siede nel bel mezzo delle scure acque al largo delle incontaminate coste scozzesi.

Eve ama la vita libera e selvaggia dell’isola, e desidera ereditare il potere dello Zio.

Ma non appena l’isolamento di Altnaharra viene infranto, la sua fede e la sua sanità mentale cominciano a sfrangiarsi.

Nel corso di una grande tempesta, nel cuore dell’inverno, un macellaio proveniente dal paese più vicino varca i cancelli della proprietà e si trova al cospetto di uno scenario raccapricciante.

I resoconti di Eve e Dinah su cosa sia realmente accaduto, quella notte, si sovrappongono e si contraddicono a vicenda. Mentre il presente e il passato iniziano a convergere, l’evidenza salta agli occhi: soltanto una delle due sta dicendo la verità.

Ma chi è veramente colpevole, e chi innocente?


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“A Touch of Ruin” in italiano: quando esce il sequel di “A Touch of Darkness”?

Queen Edizioni annuncia l’uscita di “A Touch of Ruin” in italiano!

Il romanzo, sequel di “A Touch of Darkness“, è il secondo volume della popolarissima serie paranormal romance “Ade e Persefone”.

Salvo imprevisti, il nuovo libro dell’autrice americana Scarlett St Claire dovrebbe arrivare in libreria il 30 novembre 2022.

Ricordiamo che questo è un periodo d’oro per i retelling ispirati alla mitologia greca: dai titoli più solenni e impegnativi (come “Circe” o “Il Segreto di Medusa”) a quelli più frenetici e scanzonati (come “Lore” o “Percy Jackson”), passando per graphic novel  (“Lore Olympus”) e varie rivisitazioni in chiave dark romance (“Prigioniera negli Inferi“, “The Neon Gods“).

Come si suol dire… una vera leggenda non muore mai! 😀


a touch of ruin - quando esce - trama

 “A Touch or Ruin”: la trama

La relazione di Persefone con Ade è diventata di dominio pubblico.

La tempesta mediatica che ne consegue interferisce con il normale corso della sua vita e minaccia di svelare al mondo il suo ruolo di Dea della Primavera.

A versare altra benzina sul fuoco, provvedono tutti i conoscenti ansiosi di avvertire Persefone sul conto del Dio della Morte. Come se non vedessero l’ora di rivelarle il suo oscuro passato, per indurla a tornare sui suoi passi.

La situazione peggiora nel momento in cui una terribile tragedia spezza il cuore di Persefone, e Ade si rifiuta di aiutarla. Disperata, Persefone decide di prendere in mano le redini della situazione e di stringere un accordo che scatenerà severe conseguenze.

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