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“A Sorceress Comes To Call”: la recensione della fiaba dark di T. Kingfisher


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A Sorceress Comes To Call” è recentemente entrato nella rosa dei finalisti per il prestigioso Premio Nebula 2025.

Una candidatura che non potrei sostenere con maggiore entusiasmo: anche in questa occasione, infatti, T. Kingfisher si conferma come un’autrice capace di reinventare storie classiche con una maestria rara, dando vita a retelling coinvolgenti e suggestivi che incantano per originalità, fascino e sense of wonder.

La trama di “A Sorceress Comes To Call” prende ispirazione dalla fiaba dei fratelli Grimm “La Piccola Guardiana di Oche“. Ancora una volta, Kingfisher rielabora il materiale di partenza con il suo tocco unico, mescolando sapientemente ironia, tinte oscure e una straordinaria introspezione psicologica… Il tutto, ovviamente, riletto in una chiave moderna sinistra, quanto irresistibile.


La trama

Cordelia sa che sua madre è insolita. Nella loro casa non sono ammesse porte chiuse, o segreti.

A Cordelia non è permesso avere nemmeno un amico. A meno che non si conti Falada, il bellissimo cavallo bianco di sua madre. L’unico momento in cui Cordelia si sente veramente libera è durante le sue passeggiate quotidiane con lui.

Ma più di qualche stranezza contraddistingue sua madre. Altri genitori non possono costringere le loro figlie a stare in silenzio e immobili, obbedienti, per ore o giorni interi. Altre madri non sono… streghe.

Evelyn non permetterà mai a Cordelia di allontanarsi da lei o di avere una vita tutta sua. Ha deciso, forse ancora prima che la figlia nascesse, che Cordelia sarebbe stato il suo biglietto per l’alta società. Prima di trovare un marito ricco e altolocato per la ragazza, però, l’incantatrice progetta di accalappiare a sua volta un buon partito.

Il che vuol dire una cosa sola: nel reame c’è una sfortunata famiglia che sta per ricevere la visita di una strega cattiva molto, molto determinata…

E che possa Iddio avere pietà della loro anima.


A Sorceress Comes to Call“: la recensione

Rispetto a “Nettle and Bone: Come Uccidere un Principe“, “A Sorceress Comes to Call” presenta un ritmo più riflessivo e una narrazione dalle tonalità leggermente più “serie”. Tuttavia, è importante interpretare quest’ultima definizione con cautela: T. Kingfisher, dopotutto, riesce a calibrare il suo inconfondibile umorismo macabro in base alle circostanze, mantenendo sempre la capacità di regalare un sorriso anche nei momenti più intensi e drammatici.

Tra i principali punti di forza di questo romanzo possiamo sicuramente includere:

  • Un cast di personaggi stratosferici, che include due protagoniste d’eccezione, una villain basata su una magistrale rielaborazione dell’archetipo della “Madre Soffocante” (di cui abbiamo già parlato), e tantissimi, memorabili sideckick appartenenti ad ambo le fazioni;
  • Un‘ambientazione suggestiva e ricca di dettagli, a metà strada fra fantasy of manners, fiaba dark e gothic fantasy;
  • Una valanga di dialoghi brillanti e ricchi di verve, che non rischiano di scontentare un fan di autori come Jane Austen o Terry Pratchett…

La fredda banalità del Male, e l’irresistibile bizzarria del Bene

T. Kingfisher è nota per la sua capacità di esplorare il lato più inquietante delle fiabe. La sua penna, infatti, è in grado di esaltare l’oscurità già insita in queste storie tradizionali e di conferire loro una sfumatura di attualità che rende le sue opere particolarmente vivide e significative dal punto di vista del pubblico moderno.

In “A Sorceress Comes to Call“, le protagoniste sono Cordelia, la quattordicenne figlia di una strega malvagia, e Hester, una gentildonna nubile di mezza età con una peculiare passione per l’allevamento di oche.

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“Godkiller”: la recensione del libro fantasy di Hannah Kaner


godkiller recensione - hannah kaner

Nella recensione di “Godkiller”, il nuovo libro fantasy di Hannah Kaner, troveremo spazio per parlare di:

  • un epico viaggio in stile “La Spada di Shannara”;
  •  una premessa narrativa che ricorda da vicino quella di “The Witcher”;
  • la complessa amicizia fra una bambina e una (apparentemente) pucciosa creatura sovrannaturale, simile a quella che lega Lyra a Pan ne “La Bussola d’Oro”.

Un’opera di chiaro stampo derivativo, quindi?

Mmm…

Forse.

Ma se l’unico motivo per il quale il fantasy anni Ottanta/Novanta ti è sempre riuscito un po’ indigesto è per la sua plateale mancanza di inclusività, direi che “Godkiller” potrebbe essere esattamente la lettura che fa al caso tuo…


Trama

Quando Kissen era bambina, la sua famiglia è stata arsa viva da un gruppo di fanatici religiosi, devoti seguaci di una dea del fuoco.

Non sorprenderà quindi nessuno scoprire che, da grande, Kissen è diventata una “Godkiller”, un’assassina di divinità. Una che ama molto il suo lavoro, peraltro; anche perché è convinta che contribuire allo sterminio delle entità conosciute come “dei” le permetterà di lasciare in eredità alle generazioni successive un mondo migliore.

Fino a quando Kissen non incontra Inara, una ragazzina di origini nobili, e il suo amico Skedi: una creatura magica e alata, per metà coniglio, per metà qualcos’altro, che sostiene di essere un dio delle piccole bugie.

Inara e Skedi sono legati in modi che Kissen non riesce a spiegarsi, e sono entrambi in fuga da una banda di assassini sconosciuti.

In compagnia di un nobile cavaliere alle prese con una missione personale, Kissen, Inara e Skedi dovranno quindi viaggiare fino alle rovine della città di Blendaren, un tempo protagonista della guerra fra uomini e dei, e implorare l’aiuto di una delle poche divinità sopravvissute al conflitto.

Inseguiti dai demoni, e ostacolati dagli esordi di una guerra civile, i quattro eroi dovranno quindi fronteggiare una resa dei conti: perché qualcosa di oscuro sta raccogliendo le forze al centro del mondo e, stavolta, soltanto loro avranno il potere di fermarlo.



“Godkiller”: la recensione

Personalmente, non mi ritengo una grande fan dei prologhi (e chi lo è?); eppure, posso assicurarti che quello di “Godkiller” è uno dei migliori in cui mi sia capitato di imbattermi da parecchio tempo a questa parte.

In perfetto stile Holly Black (che ha replicato il trucco all’inizio del suo ultimo lavoro, “The Stolen Heir”), Hannah Kaner decide, infatti, di capitombolare il lettore nel bel mezzo di un’azione brutale e drammatica: il rogo della famiglia di Kissen.

Dal momento che questa scena si delinea presto, ai nostri occhi, come il trauma da cui ogni ferita emotiva dell’eroina ha avuto modo di svilupparsi, va da sé che si tratta di un passaggio imprescindibile: l’emozionante “retroscena” che innescherà la necessità di Kissen di imbarcarsi in un periglioso viaggio interiore, oltre che pratico e letterale.

Coinvolgente, tesa, incalzante, la scena di apertura di “Godkiller” promette ai suoi lettori un’ambientazione spettacolare, una serie di conflitti mozzafiato, la nascita di un’indimenticabile e tormentata eroina… Tutti quegli elementi in grado di dar vita, insomma, a un imperdibile nuovo “classico” del genere.

Purtroppo, come Skedi potrebbe testimoniare, si tratta in realtà di una piccola “bugia bianca”.

Alla resa dei conti, infatti, il resto del romanzo d’esordio di Hannah Kaner non riesce a giustificare l’eccitante senso di aspettativa generato dalle prime cinquanta, sessanta pagine.

Il pesantissimo apparato descrittivo, il ritmo pachidermico e l’intrinseca tediosità di alcuni personaggi rendono la lettura dei capitoli centrali maledettamente faticosa!

Come se “Godkiller” costituisse, a sua volta, soltanto una sorta di “prologo” all’azione vera e propria….


L’ordalia di Gary Stu

Fino all’arrivo a Blendaren, la quest di Kissen e company si rivela, in effetti, stranamente priva di complicazioni. Un paio di attacchi da parte di creature mostruose a caso, una serie di battibecchi fra innamorati fra la cacciatrice di dei e il suo (odioso) love interest.

E, parlando di Elogast, sinceramente non posso fare a meno di tirare fuori la vecchia battuta che continua a circolare in determinati ambienti letterari di stampo femminista:

«Senti un po’. Come lo chiameresti, tu, un Mary-Sue maschio

«Lo chiamerei… il protagonista

Elogast è il più grande guerriero. Nella metà del tempo che serve a Kissen per ferire un nemico, lui riesce a farne fuori cinque, senza versare una goccia di sudore.

È anche un amico fedele. Il confidente ideale. Un impeccabile dispensatore di consigli di vita. Un panettiere sublime. Un cantante dalla voce dolce e melodiosa.

Ha il corpo statuario, Elogast, nonché il sorriso accattivante e lo sguardo espressivo di un cucciolone.

Sarebbe un padre affettuoso e protettivo; un amante generoso e perfetto; il vicino sempre pronto a prestarti una tazzina di zucchero e bla bla bla, chissà quante altre idiozie su questo tenore!

Il suo più grande (e unico) difetto?

Elogast è troppo nobile. Troppo buono. Troppo sincero.

Ora.

Lo intuisci da te, il problema, giusto?

Nobile”, “buono” e “sincero” non sono affatto difetti da superare. Sono soltanto altre virtù, camuffate da difetti.

Perché il loro palese sottotesto è che sia il MONDO a essere in difetto nei confronti di un uomo così leale, così integerrimo, così… così spettacolare.

Elogast non ha veramente motivo di cambiare. Agli occhi della sua autrice, è già “perfetto” così com’è.

Dunque, per quale motivo un lettore dovrebbe trovare interessanti i suoi (patetici) dilemmi morali, o i diecimila capitoli narrati dal suo punto di vista?

Come potrebbe mai, una persona reale, immedesimarsi in questo cavaliere senza macchia e senza paura, o arrivare a fare il tifo per l’(improbabile) storia d’amore nascente fra lui e Kissen?


Il pianeta delle divinità selvagge

Se un lettore leggesse la mia recensione di “Godkiller” fino a questo punto e poi si fermasse, immagino che potrebbe essere portato a pensare: «Wow! Ma allora l’hai detestato davvero un sacco, questo libro, eh?».

In realtà, no.

Il romanzo di Hannah Kaner ha parecchi lati buoni, e vale senz’altro la pena menzionarli.

Oltre al concept da infarto, di “Godkiller” ho apprezzato tantissimo il worlduilding, il sistema magico e la mitologia.

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