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“Un fantasma in casa”: la recensione del film disponibile su Netflix


un fantasma in casa - recensione - netflix

Non so fino a che punto la mia recensione di “Un fantasma in casa” potrà aggiungere qualcosa a quanto già detto da tanti altri.

Per una volta, infatti, sento di poter concordare appieno con la maggior parte del pubblico e della critica internazionale: il film di Christopher Landon è un mezzo flop, un semplice prodotto “riempitivo” da propinare ai bambini nel corso di un’uggiosa domenica pomeriggio.

Non che manchino un paio di gag particolarmente riuscite, intendiamoci. Il cast è interessante, e sicuramente le dinamiche fra il giovane protagonista e il suo amico fantasma riescono a intenerire al punto giusto.

Eppure, nel complesso, trovo che “Un fantasma in casa” fallisca nell’unico compito che aveva il “dovere” di assolvere: divertire il pubblico, regalandogli un paio d’ore spensierate all’insegna di buoni sentimenti e magia…


La trama

La famiglia dell’adolescente Kevin (Jahi Winston) si è appena trasferita in una sinistra magione scricchiolante.

I Presley hanno avuto un po’ di problemi economici, ultimamente; soprattutto a causa delle ripetute (e improbabili) trovate “imprenditoriali” di Frank (Antony Mackie), il padre di Kevin.

Il giovane protagonista non riesce a perdonare ai genitori i continui fallimenti e gli inevitabili traslochi da un capo all’altro della nazione. Anche per questo, il suo rapporto con la famiglia e con i coetanei sta diventando sempre più teso e ricco di fraintendimenti.

Almeno fino a quando, vagolando di notte nella sua nuova casa, Kevin non si imbatte nel fantasma di uno stempiato (e smemorato) giocatore di bowling di nome Ernest (David Harbour).

Mentre Frank fa di tutto per sfruttare la presenza dello spettro a proprio vantaggio e trasformarsi nel nuovo divo di Internet, il nostro eroe decide di aiutare il povero Ernest a venire a capo delle misteriose circostanze che avvolgono la sua morte.

Malgrado le interferenze di una suadente presentatrice televisiva (Jennifer Coolidge) e di un’ex agente della CIA fissata con l’aldilà (Tig Notaro), fra i due sboccerà una bella storia di amicizia sovrannaturale.


“Un fantasma in casa”: la recensione

Per come la vedo io, il disperato tentativo di guadagnarsi un posto all’interno del collaudato filone “viva gli anni Ottanta!” finisce con il compromettere pesantemente l’identità del film.

Di Landon avevo apprezzato tanto le commedie horror “Auguri per la tua morte” e “Freaky”. Un po’ meno, per usare un eufemismo, mi aveva convinto la sceneggiatura del film “L’Esorcismo della mia migliore amica” (vale però la pena ricordare che, in quel caso, Landon era coinvolto soltanto nelle vesti di produttore esecutivo).

Non saprei dire che tipo di speranze covassi nei confronti di un progetto come “Un fantasma in casa”. Dopotutto, il titolo, di per sé, risulta abbastanza autoesplicativo, no?

Eppure, considerando i precedenti del regista/sceneggiatore, probabilmente speravo in un film con un pizzico di… personalità in più, se riesco a spiegarmi?

Invece, devo ammettere che lo scarso senso dell’umorismo e la debolezza del plot mi hanno spiazzato. Per non parlare dell’incapacità dello script di armonizzare spunti che sembrano tratti da una mezza dozzina di fonti di ispirazione diverse.

In realtà, secondo me, le gag più divertenti sono quelle che inseguono un trend tutto contemporaneo: prendere allegramente in giro il folle mondo dei social!

Ma fino a che punto è possibile continuare a tifare per i protagonisti di un film che non sembra in grado di scegliere fra la necessità di portare fino in fondo il proprio (demenziale) concept, e l’inspiegabile tentazione di prendersi troppo sul serio?

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“Extraordinary”: 5 cose che uno scrittore di libri new adult può imparare guardando la prima stagione


extraordinary - prima stagione - banner

La prima stagione di “Extraordinary” è stata la mia serie tv-rivelazione di gennaio.

A mio avviso, infatti, l’incredibile qualità della sceneggiatura – fresca, graffiante, irriverente… totalmente fuori di testa! – basta e avanza a compensare tutti i suoi (piccoli) difetti a livello tecnico e recitativo.

La trama dello show distribuito su Disney+ verte intorno alle tragicomiche disavventure quotidiane di Jen (Máiréad Tyers), uno dei pochi esseri umani privi di superpoteri in un mondo in cui persino il postino, o la tua amichevole fornaia di quartiere, avrebbe le carte in regola per presentare domanda d’assunzione presso il locale team degli Avengers.

Come saprai, non è la prima volta che la Disney decide di affrontare il tema supereroistico dal punto di vista dell’”escluso” (coff coff… “Encanto”… si schiarisce la voce…).

Eppure, dammi retta…

Sulla piattaforma di Topolino, non hai mai visto nulla di remotamente simile a “Extraordinary”! Un coming-of-age arguto e dissacrante, sulla scia di folli show televisivi come “Fleabag” o “The Flight Attendant”.

E se sei uno scrittore alle prime armi…

Assicurati di guardare la serie tv creata da Erin Moran almeno due volte, e in lingua originale. Da uno show come questo, fidati di me, c’è sempre e solo da imparare…


1. Vedi alla voce “drama queen”: ovvero, come scrivere un personaggio femminile forte, ma totalmente fuori controllo

Come dicevo, ritengo la sceneggiatura di “Extraordinary” estremamente brillante; a partire dal modo in cui sceglie di caratterizzare i suoi personaggi e, in modo particolare, la sua protagonista, Jen.

Un’antieroina disastrosa, anche a voler arrotondare la stima per difetto. Un autentico trainwreck, un riepilogo ambulante di contraddizioni, difetti e nevrosi tipici dell’età contemporanea.

All’inizio di questa prima stagione, Jen ha un carattere orrendo, un modo di fare destinato a ispirare nello spettatore tanto imbarazzo e fastidio, quanta ineluttabile empatia.

Per non parlare della sua marcata inclinazione all’autolesionismo e allo zerbinaggio compulsivo, o della sua all’incredibile capacità di stringere legami inutilmente complicati con chiunque le capiti a tiro.

Certo: ha grinta da vendere, Jen, e un singolare, goliardico spirito dell’umorismo metropolitano.  E poi, vuole davvero bene ai suoi amici, anche se non sempre è in grado di dimostrarlo.

Ma Jen è anche un’imbecille patentata, piena di complessi e di paure infantili che le rendono la vita un inferno. Cose che la spaventano e che la spingono ad agire d’impulso, commettendo gli sbagli più catastrofici che tu possa immaginare.

Insomma, per farla breve: Jen – per quanto a tratti possa risultare ridicola, antipatica, egocentrica, perfino odiosa – è un essere umano a tutto tondo, l’incarnazione stessa del concetto di ANTI-Mary-Sue.

Di più: è una donna dei giorni nostri, una sorta di “specchio” deformante in grado di restituirci un’’immagine ingigantita, ma perfetta, di tutti i nostri più grandi difetti.

Lontana anni luce da ogni stereotipo di genere, insomma.

E, perciò, totalmente irresistibile.


2. Come porre le basi per un solido arco trasformativo del personaggio

Ricordi quando abbiamo parlato dei prerequisiti necessari allo sviluppo di un buon arco trasformativo del personaggio?

Da questo punto di vista, la protagonista di “Extraordinary” non si fa mancare assolutamente nulla.

Jen, infatti, può contare su:

  • Una persistente Bugia che l’affligge sin dai tempi dell’adolescenza (la certezza strisciante di valere poco e niente, a causa della sua mancanza di superpoteri);
  • Una Ferita Emotiva contenuta nel suo background (la spiccata e implacabile preferenza dimostrata da sua madre nei confronti di sua sorella minore, Andy);
  • Un Oggetto del Desiderio superficiale, in grado di alimentare e “mandare avanti” la trama di questa prima stagione (tentare in ogni modo di sbloccare i suoi poteri latenti. Jen, infatti, è convinta che trasformarsi in un super-donna le permetterà di raddrizzare il corso della sua vita);
  •  Una Verità capace di ribaltare la Bugia (che uno abbia la superforza o la capacità di riavvolgere il tempo, o nessuna dote speciale in assoluto, la sostanza non cambia: la vita di ognuno di noi è una specie di farsa grottesca, pronta a farci ridere o piangere a seconda della prospettiva. Imparare a perdonare e a voler bene – agli altri, ma prima di tutto a noi stessi – è l’unico modo per cavarsela).

Mi segui?

Per passare dalla Bugia alla Verità, Jen dovrà compiere innumerevoli passi falsi e subire penose batoste.

Ma sarà proprio la sua capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta, in ultima analisi, a rendercela così cara e vicina (per approfondire l’argomento, ti rimando all’articolo “Come scrivere un protagonista indimenticabile: dalla “ferita emotiva” alla scoperta della propria verità“).

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“Omicidio nel West End”: 5 cose che uno scrittore di gialli può imparare guardando il film di Tom George


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Omicidio nel West End” (“See How They Run”, 2022) è approdato su Disney+ da poco, per la gioia di ogni fan del giallo in generale, e delle pièce di Agatha Christie in particolare.

Se ti diletti nell’arte della scrittura di murder mistery e non l’hai ancora visto, ti consiglio caldamente di rimediare.

Difficile considerare il film un capolavoro della settima arte, intendiamoci. Ma la sceneggiatura è senz’altro in grado di vantare un paio di momenti brillanti e una serie di colpi di scena esilaranti. Non credo proprio che avrai motivo di restare deluso, o rimpiangere il tempo speso per la visione.

Anche perché – ormai dovremmo saperlo bene – è sempre possibile imparare ALMENO cinque preziose lezioni di storytelling da qualsiasi libro letto, da ogni film o serie tv che vediamo.

Che cosa ne pensi, allora? Sei pronto a scoprire tutto ciò “Omicidio nel West End” potrebbe insegnarci?


1. Il sottogenere del “buddy cop” resta, oggi come in passato, un’ottima ricetta per il successo

Gran parte dell’empatia che lo spettatore di “Omicidio nel West End” arriva a provare nei confronti dei personaggi, passa attraverso il legame che comincia pian piano a svilupparsi fra i membri della «strana coppia» di investigatori interpretati da Sam Rockwell e Saoirse Ronan.

Due buffi personaggi (ma anche tragici, a loro modo…), che rappresentano una serie di valori e atteggiamenti completamente agli antipodi: lui cinico, svogliato, sbevazzone e vagamente imbolsito; lei zelante, ottimista, goffa e fin troppo pronta a “scattare” (soprattutto verso un sacco di conclusioni improbabili).

Le interazioni fra questi due personaggi, così riconoscibili e “familiari” per il grande pubblico (eppure, al tempo stesso, così rassicuranti, così piacevoli, così umani….) permettono l’inserimento di un gran numero di siparietti comici.

Contemporaneamente, però, aprono anche la strada per una serie di dialoghi che ci permettono di sbirciare nella sfera privata dei due detective e di intuire la profonda vulnerabilità (e l’inesprimibile malinconia) che, in fondo, incarna un po’ l’essenza di entrambi.

Aumentando, di fatto, le probabilità di riuscire a innescare un’autentica connessione emotiva fra il pubblico e l’opera.

Dopotutto, c’è un motivo, se quello del “buddy cop” è sempre stato uno dei sottogeneri più popolari e frequentati.

Stiamo parlando di un “modello” che affonda le radici nel trope universale delle personalità opposte che si attraggono (anche solo in senso amicale). Uno strumento potentissimo, a cui non dovresti avere paura di ricorrere, nel caso in cui la natura specifica dell’intreccio a cui stai lavorando ne preveda l’occasione.

Capisci cosa intendo dire, vero?

Prova a pensare ai migliori film “buddy cop” che tu abbia mai visto: “Point Break”, “Bady Boys”, “Corpi da Reato”, Zootropolis”, “Rush Hour”, “Hot Fuzz”…

Prova a farci caso: di tutti questi titoli, quali sono gli elementi che ti sono rimasti nel cuore? I minuziosi dettagli dell’intreccio, magari?

Oppure l’eccentrico, spassoso, irresistibile rapporto a base di amore fraterno, battibecchi e rivalità che teneva insieme i due protagonisti?

Certo, esistono anche buddy cop terrificanti!

Day Shift”, il mediocre urban fantasy di Netflix con Jamie Foxx e Dave Franco, ne rappresenta una delle prove più recenti.

Ma ti assicuro che il problema, in quel caso, risiede soltanto nella povertà di esecuzione.

La ricetta, dal canto suo, resta perfettamente valida.


2. Sfondare la quarta parete va bene… se sai come farlo!

In almeno un’occasione, un personaggio di “Omicidio nel West End” si rivolge direttamente al pubblico, infrangendo quella che, in gergo cinematografico, prende spesso il nome di “quarta parete”.

Il suo modo di fare, così giocoso e cospiratorio, risulta sicuramente molto accattivante. Rappresenta anche, peraltro, un richiamo diretto al finale dell’opera teatrale “Trappola per Topi” di Agatha Christie.

Si tratta di un effetto piuttosto simpatico ed efficace, nessun dubbio al riguardo. Ti avverto, però: cercare di sfondare la quarta parete può trasformarsi in un’arma a doppio taglio nel giro di un microsecondo.

Narratori più esperti di me e di te ci sono cascati, e corre voce che l’eco del tonfo che hanno fatto echeggi ancora nell’urlo del vento, nel corso delle più nere notti d’inverno.

Perciò,  se sei un autore alle primissime armi, ti sconsiglio vivamente di tuffarti a testa bassa in questa direzione: anziché raggiungere l’effetto sperato, potresti asfissiare la sospensione dell’incredulità del tuo lettore con tutta l’allegra incoscienza di uno sterminatore di topi che fischietta allontanandosi dalla scena del crimine.


3. Come ti uso (e perculo) la tecnica del foreshadowning

Più avanti, dedicheremo senz’altro un articolo più approfondito all’uso del foreshadowing, un meccanismo narrativo che permette all’autore di suscitare un elettrizzante (quanto inconscio, nella maggior parte dei casi…) senso di anticipazione.

Per adesso, ti esorto semplicemente ad analizzare il modo in cui la sceneggiatura di “Omicidio nel West End” riesce a prenderci tutti per il naso, semplicemente ricorrendo a questa tecnica… nel modo più sfacciato e provocatorio possibile!

Mi sto riferendo, ovviamente, alla scena dello storyboard escogitato dallo sgradevole regista Köpernick.

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“My Best Friend’s Exorcism” (recensione): amiche e demoni nel film horror di Prime Video


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Qualcosa mi dice che scrivere la recensione del film “My Best Friend’s Exorcism” sarà un compito più doloroso del previsto.

In parte, perché ho da poco finito di leggere lo strepitoso romanzo di Grady Hendrix; una commedia horror dai toni energici e sferzanti, con cui ho sviluppato un legame emotivo particolare.

Ma anche perché il film di Damon Thomas (disponibile sul servizio streaming Amazon Prime Video) si è rivelato un adattamento un po’ piatto, e decisamente vigliacco!

L’ennesima sviolinata in chiave matusa&ottusa agli anni Ottanta, purgata di ogni minimo accenno di satira sociale e di ogni graffiante trovata anticonformista escogitata da Hendrix.

Una pellicola anonima e dimenticabile, insomma; di quelle che si lasciano guardare ma non ricordare, e che si ritrovano, loro malgrado, a incarnare il peggio che il classico buonismo commerciale hollywoodiano abbia da offrire…


La trama

Abby (Elsie Fisher) e Gretchen (Amiah Miller) sono due liceali amiche del cuore: abituate a condividere tutto, e pronte a mettere da parte ogni differenza scaturita dai loro rispettivi stili di vita.

Un giorno, Abby e Gretchen raggiungono un gruppetto di amici presso una casa sul lago e assumono delle sostanze stupefacenti di dubbia provenienza.

Nei dintorni, però, si erge un misterioso rudere abbandonato. La leggenda locale vuole che al suo interno, anni prima, un’altra adolescente sia stata sacrificata in nome di Satana.

Incuriosita, Gretchen decide di esplorare la casupola, chiedendo prontamente ad Abby di accompagnarla.

Tuttavia, all’interno della costruzione si nascondono strane forze maligne, pronte a cospirare per separare le due amiche e avvolgere Gretchen nelle loro spire.

Tant’è che, a partire da quel momento, Gretchen cambia completamente atteggiamento e diventa collerica, imprevedibile, vendicativa e capricciosa.

Abby è senza parole. Che cosa è successo alla ragazza dolce e gentile che l’ha sempre supportata e aiutata nei momenti di difficoltà? Perché, tutt’a un tratto, sembra quasi che Gretchen si diverta a fare del male alle persone?

E com’è possibile che un culturista cattolico con il pallino per la lotta agli spiriti del Male (interpretato da Chris Lowell) riconosca in Gretchen la presenza di un’influenza oscura e pericolosa?


“My Best Friend’s Exorcism”: la recensione del film

Intendiamoci: il film horror di Damon Thomas non è il peggior adattamento di un libro molto amato che io abbia mai visto. Non è neanche il migliore e, di sicuro, non è il più ispirato, il più originale o il più ambizioso.

In realtà, il livello delle interpretazioni è piuttosto buono, anche se Chris Lowell (“Glow”, “How I Met Your Father”…) mi è sembrato l’unico in grado di rendere giustizia al proprio personaggio.

I suoi exploit da esorcista della domenica, infatti, riescono a strappare un paio di risate senza alcuna fatica, incarnando alla perfezione quel perfetto connubio fra ingenuità, fervore e dabbenaggine richiesto dall’ambientazione.

Ma il fatto che la sceneggiatura preferisca volare basso, e depotenziare il significativo apparato metaforico imbastito da Hendrix, gioca senz’altro a detrimento della qualità complessiva della pellicola…

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