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“What Lies in the Woods”: la recensione del mistery di Kate Alice Marshall


what lies in the woods recensione - kate alice marshall

Questo martedì, la recensione di “What Lies in the Woods” ci accompagna!

Il libro di Kate Alice Marshall è un nuovo, torbido “small town mistery”. Ma, a essere del tutto sincera, stavolta si tratta di una lettura che ho trovato indigesta, e sotto parecchi punti di vista. Dopotutto, esistono poche cose più noiose di un thriller che non è in grado di coglierti di sorpresa neanche per un secondo, dico bene?


La trama

Un tempo, Naomi Shaw credeva nella magia. Ventidue anni fa, lei e le sue due migliori amiche, Cassidy e Olivia, erano solite trascorrere l’estate scorrazzando per i boschi, immaginando un mondo di cerimonia e di incanto. Lo chiamavano il “Gioco della Dea”.

La loro ultima estate insieme è finita con l’inspiegabile aggressione subita da Naomi. Per puro miracolo, la ragazza è riuscita a sopravvivere a diciassette coltellate e a identificare l’uomo che l’ha attaccata. La testimonianza della ragazza è stata decisiva per identificare il serial killer che stava terrorizzano l’area, peraltro già ricercato per l’omicidio di sei donne.

Agli occhi della comunità, Naomi e le sue amiche si sono comportate da eroine.

Ma, in realtà, le tre ragazze sono delle bugiarde.

Per decadi, hanno continuano a tenersi stretto un segreto per cui potrebbe valere la pena uccidere. Adesso, però, Olivia è pronta a rivelare la verità. Naomi, che soffre di amnesia selettiva, decide allora di scoprire cosa è accaduto davvero quel giorno, svelando la catena di eventi che ha portato al suo attacco.

Ma non ha idea di quello che potrebbe costarle



“What Lies in the Woods”: la recensione

“What Lies in the Woods” schiera in campo una protagonista bisessuale (ma che, stranamente, sembra attratta soltanto dalla sfilza di personaggi maschili che si materializzano sulla sua strada…), un armamentario di twist telefonatissimi, una deprimente collezione di cliché spacciati per archetipi…

Il risultato? Un mistery a forti tinte rose che mi sentirei di consigliare soltanto a un lettore alle primissime armi; uno che, possibilmente, non abbia mai sentito parlare di Paula Hawkins o Gillian Flynn. Ma neanche di Taylor Adams o Simone St. James, se per questo.

Praticamente, ti basta leggere la sinossi riportata in quarta di copertina per scoprire tutto quello che c’è da sapere a proposuto di questa storia e di dove andrà a parare. La stessa cosa che aveva attirato la mia attenzione – il “Gioco della Dea”, la dinamica angosciante e pericolosa che si viene a instaurare fra le tre bambine/giovani donne – si rivela, del resto, una sorta di specchietto per le allodole.

Sì, perché Kate Alice Marshall impiega UN ATTIMO a sminuire la complessità e le sfumature dell’amicizia al femminile, riducendo tutto a una deprimente pioggia di stereotipi.

Per cominciare, le basta trasformare la sua protagonista nella classica eroina tormentata a caccia di un cavaliere dalla scintillante armatura, e proseguire confinando le sue due amiche al ruolo di spalla/macchietta (non scendo nei particolari, per evitare quei due o tre spoiler in cui potresti davvero rischiare di incappare).


La verità è là fuori

Cosa resta, allora, di una premessa che poteva sembrare – non dico rivoluzionaria – ma quantomeno abbastanza intrigante da giustificare la lettura dell’ennesimo thriller?

Bè, sei sei interessato a quel genere di cose, sicuramente l’autrice approfondisce il tema delle varie turbe sentimentali della protagonista. Una donna adulta (che, peraltro, è stata vittima di abusi da adolescente…) e che, adesso, si sente incline sfoggiare le sue cicatrici e a mostrarsi come cinica, disincantata ecc. Ma che poi riesce, miracolosamente, a innamorarsi di un tizio gentile a caso nel giro di quattro pagine e a fidarsi ciecamente di lui… al punto da confidargli allegramente tutti i segreti della sua vita, compresi quelle delle sue cosiddette “amiche”.

Non vorrei, ora, che tu rischiassi di fraintendere i toni di questa recensione di “What Lies in the Woods”. Non nutrivo aspettative stellari nei confronti del titolo di Kate Alice Marshall . Quello che cercavo, semplicemente, era una buona forma di intrattenimento, qualcosa in grado di distogliermi dai miei studi per qualche ora.

Mi era già chiaro, insomma, che il romanzo non sarebbe stato un nuovo “Creature del Cielo” o una versione alternativa di “Mare of Easttown”.

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“How to Sell a Haunted House”: la recensione del folle libro horror di Grady Hendrix


how to sell a haunted house recensione - grady hendrix

La recensione di “How to Sell a Haunted House” di Grady Hendrix sarà un po’ ambigua, temo.

Cercherò di spiegarmi meglio nel corso dell’articolo. Il succo del discorso, però, è che nutro dei sentimenti abbastanza ambivalenti nei confronti di questo surreale campy horror a tema pupazzetti dall’inferno!

Da una parte, infatti, ho sicuramente apprezzato la contagiosa ironia dell’autore, nonché il suo sforzo di conferire un certo livello di profondità emotiva all’intera vicenda. Dall’altra, devo ammettere di non essere rimasta particolarmente colpita dall’altalenante costruzione della trama, né da quella dei personaggi


La trama

Quando Luoise scopre che i suoi genitori sono morti, non è affatto felice all’idea di dover tornare nella sua città d’orgine. Tanto per cominciare, non ha nessuna voglia di lasciare la sua bambina, Poppy, alle cure del suo ex, per volare a Charleston da sola.

E poi, Louise non è certo ansiosa di avere a che fare con la casa dei suoi genitori! L’edificio, infatti, è stracolmo di ricordi. Contiene tutto ciò che resta della carriera accademica di suo padre e dell’eterna ossessione di sua madre verso bambole e pupazzi.

Soprattutto, Luoise non vuole avere a che fare con il suo nullafacente fratello, Mark.

Mark, dal canto suo, non ha certo intenzione di renderle le cose più facili. L’uomo, che non ha mai lasciato Charleston e non è mai riuscito a tenersi un lavoro per più di qualche giorno, cova un grandissimo risentimento nei confronti della sorella. Sfortunatamente, Luoise dovrà trovare un modo per dialogare con Mark, se intende preparare la casa per la vendita.

Specialmente perché, a quanto pare, non bastano una mano di vernice e una sana dose di pulizie per rendere appetibile per il mercato una vecchia magione infestata.

Certe case non hanno nessuna intenzione di essere cedute. Quella di Louise e Mark, ad esempio, sta preparando piani di tutt’altro genere nei confronti dei suoi proprietari…





“How to Sell a Haunted House”: la recensione

Nei suoi aspetti essenziali, “How to Sell a Haunted House” ” si legge quasi come una sorta di bizzarra saga famigliare condensata… con un sadico emulatore del pupazzo Slappy a fare da improbabile collante intergenerazionale, e un gustoso contorno di intermezzi comico-demenziali a ravvivare sporadicamente l’atmosfera.

C’è da dire che, se non avessi divorato – e visceralmente amato – due dei precedenti romanzi dell’autore (“My Best’s Friend Exorcism” e “Gruppo Sostegno Ragazze Sopravvissute”, entrambi in editi in Italia da Mondadori), forse stavolta non sarei riuscita a spingermi oltre pagina settanta.

Perché credo di aver cominciato a sviluppare un piccolo problema nei confronti dei “primi atti” delle opere di Grady Hendrix: i capitoli introduttivi mi annoiano un po’, probabilmente perché ai protagonisti dei suoi libri serve sempre del tempo per riuscire a rendersi riconoscibili ed ergersi al sopra della baraonda di gag, battute e azione sfrenata che l’intreccio tende sempre a scagliare nella loro direzione. Nel caso di “How to Sell a Haunted House”, devo dire che questo fenomeno si è replicato alla perfezione.

In realtà, a fine lettura mi sentirei di definire Luoise, l’eroina del libro, come un “personaggio abbastanza ok“. Suo fratello Mark, viceversa, mi è sembrato un idiota colossale e infantile dalla prima all’ultima pagina. Tant’è che ho fatto veramente fatica a mandar giù una lunga (e delirante) parentesi narrata dal suo punto di vista.

Il che, fra l’altro, rappresenta un altro dei problemi principali: perché i frequenti flashback, i retroscena, le digressioni, a tratti rendono la lettura pastosa e, a mio avviso, anche un filino pedante. Nella seconda parte, per fortuna, questo meccanismo inizia ad attenuare i suoi effetti, permettendo a Hendrix di dispiegare tutti i suoi punti di forza, i suoi caratteristici assi nella manica: ad esempio, il fattore nostalgia, la metafora sovrannaturale, le complicate sfumature dei rapporti famigliari, il sense of wonder tipico dell’infanzia…


Lo “spirito dell’infanzia”

Direi che è arrivato il momento di bilanciare la mia recensione di “How to Sell a Haunted House”, introducendo alcune considerazioni relative a quelli che sono, invece, i miei elementi preferiti del libro.

Ho apprezzato tantissimo, ad esempio, l’atmosfera disturbante e retrò della narrazione. Ma anche l’originalità dei colpi di scena e gli sviluppi imprevedibili (per non dire esilaranti) portati dal classico trope horror dei “pupazzetti malevoli che prendono vita”.

Se i film del franchise “Annabelle” avessero la metà della personalità del romanzo di Grady Henrix, ci troveremmo senza dubbio alle prese con alcuni degli horror più inquietanti e divertenti dell’ultimo decennio!

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“Bright Falls”: la recensione della trilogia romcom di Ashley Herring Blake


Bright Falls recensione - delilah green - astrid parker - iris kelly

La recensione della trilogia “Bright Falls” di Ashley Herring Blake non può che iniziare dalla mia romcom preferita di sempre, alias “Delilah Green Doesn’t Care”.

In realtà, ho amato profondamente tutti e tre i libri della serie. Ma il primo resta, a mio avviso, quello che ritrae i personaggi migliori e le dinamiche più coinvolgenti, oltre ai momenti più divertenti in assoluto.

Sullo sfondo dei tre romanzi, troviamo la pittoresca cittadina di Bright Falls, con le sue atmosfere da cartolina e i suoi ecclettici personaggi inclini al banter in stile “Gilmore Girls“. Per non parlare di alcuni fra i tropes più popolari tra i lettori di romanzi rosa: grumpy×sunshine, fake dating, enemies-to-lovers, found family ecc…


“Bright Falls” – la recensione: “Delilah Green Doesn’t Care”

Tutto ha inizio quando Delilah Green, cinica e mondana fotografa newyorchese, è costretta a tornare nella sua minuscola cittadina natale. Un posto che detesta e in cui ha trascorso un’infanzia infelice e un’adolescenza tormentata, al fianco dell’algida matrigna Isabelle e dell’istrionica sorellastra Astrid.

Delilah aveva fatto un giuramento a se stessa: non rimettere mai più piede nell’odiata Bright Falls. Ma l’imminente matrimonio di Astrid (peraltro, con quello che l’irriverente Delilah considera un gran pezzo d’asino…) alla fine le forza la mano.

Per “vendicarsi” di questo imprevisto contrattempo, Delilah decide di provare a sedurre Claire Sutherland, una delle amiche del cuore di Astrid. Una notte di passione e via, verso la prossima avventura… con il bonus aggiuntivo di annoiare profondamente Astrid!

Dopotutto, se esiste un’arte in cui la ribelle Delilah è sempre riuscita a eccellere… Non ha forse a che fare con la sua straordinaria abilità di recitare la parte della costante spina nel fianco? L’incorregibile pecora nera di famiglia, o qualcosa del genere?

Il piano, certo, è di una stupidità inaudita. Delilah, forse, sarebbe la prima ad ammetterlo. Eppure, chi potrebbe immaginare fino a che punto il suo stesso progetto stia per ritorcersi contro di lei? Soltanto nel momento in cui comincerà a perdere seriamente la testa per Claire, dolcissima bibliotecaria alle prese con una figlia pre-adolescente, Delilah inizierà a sospettare di essere infilata in un guaio molto, molto più grande di lei…

“Delilah Green Doesn’t Care” è un libro rosa leggero, divertente e incentrato su una coppia di protagoniste dotate di un’alchimia sorprendente. I dialoghi sono irresistibili e pieni di verve, una caratteristica che contribuisce ad allontanare la storia dal regno dell’angst gratuito e a spingerla più verso il perimetro della tua classica romcom in stile Reese Whiterspoon o Sandra Bullock. Il romanzo affronta, peraltro, alcune tematiche collaterali quali il rapporto con la famiglia d’origine e l’antagonismo fra sorelle. E lo fa in un modo molto simpatico e brioso, senza mai rischiare di scivolare nella superficialità o nel buonismo a buon mercato.

Ah, peraltro “Delilah Green Doesn’t Care” vanta il merito aggiuntivo di introdurre le altre due grandi protagoniste della serie “Bright Falls”: la nevrotica ice queen Astrid Parker e l’esuberante party girl Iris Kelly…



“Astrid Parker Doesn’t Fail”: la recensione

Continuiamo la nostra recensione della serie “Bright Falls” introducendo Astrid, sorellastra di Delilah e implacabile stacanovista del lavoro. Una giovane donna che vive assecondando un unico, incontrovertibile comandamento: il fallimento, in tutte le sue forme, è da considerarsi anatema inaccettabile!

Peccato che la rottura definitiva con un fidanzato ricco, ma odioso, e un paio di grossi problemi dal punto di vista professionale stiano per mettere a dura prova il suo stile di vita. Quel poco che resta del suo tradizionale aplomb? Verrà messo a dura prova da due ulteriori “elementi di disturbo”: da una parte, le continue interferenze nella sua vita privata da parte di sua madre, la tirannica Isabelle Parker-Green; dall’altra, la profonda confusione che Astrid (dopo una vita trascorsa all’insegna della più totale eterosessualità) inizia a provare nel momento in cui si scopre attratta dalla solare compagna di lavoro Jordan Everwood.

In “Astrid Parker Doesn’t Fail”, Ashley Herring Blake introduce la “variabile” del reality show e lo fa moooolto bene, preparando la scena per una serie di siparietti comici e momenti romantici dal taglio assolutamente delizioso. Peraltro, il libro torna a indagare le complesse dinamiche madre/figlia e a esplorare il concetto di bisessualità, seguendo il graduale-ma-tenero percorso di accettazione di Astrid della propria identità.

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“Starling House”: la recensione del libro fantasy gotico di Alix E. Harrow


starling house recensione - alix harrow

Chi è pronto per la recensione di “Starling House“, il nuovo, straordinario romanzo fantasy gotico di Alix E. Harrow?

Un libro magico e suggestivo , che riesce a fondere romanticismo e inquietudine, small town horror e fiaba dark, urban fantasy e southern gothic

Il tutto, narrato dal punto di vista di due protagonisti che rifiutano di lasciarsi inscatolare da qualsiasi cliché, nel suadente, grintoso stile dell’autrice de “Le Streghe in Eterno” e “Le Diecimila Porte di January” …


La trama

Nessuno, a Eden, è in grado di ricordare quando sia stata costruita Starling House. Ma la città concorda su una cosa: è meglio lasciare che quella vecchia magione derelitta vada in rovina… insieme al suo ultimo occupante.

Dopotutto, voci e racconti sulla pessima reputazione della casa, con il suo carico di sfortuna, sono state tramandate in città di padre in figlio, di madre in figlia, per intere generazioni.

Opal, dal canto suo, non è abbastanza ingenua da lasciarsi coinvolgere in storie fantasiose di questo genere, e si rifiuta di avere a che fare con case infestate o uomini dall’aria particolarmente tormentata. Almeno fino a quando non le si presenta un’opportunità di lavorare a Starling House: l’occasione che aspettava, quella che le permetterà di salvare suo fratello dalla soffocante morsa di Eden.

Starling House è bizzarra e piena di segreti – esattamente come Arthur, il suo ultimo erede. Opal comincia a sentirsi stranamente attratta da entrambi. Ma non è lei l’unica interessata agli orrori e e alle meraviglie che giacciono sepolti sotto la casa…

Forze sinistre e minacciose si preparano, infatti, a convergere su Eden… e, all’improvviso, Opal realizza che, se vuole proteggere la casa, dovrà lottare per lei. Perfino se questo significasse dissotterrare uno scheletro famigliare o due, o quattro, o mille…



La ragazza che aveva due liste

Il nuovo libro di Alix E. Harrow racconta di porte segrete, case senzienti, bagagli invisibili e oscuri segreti di famiglia. La storia di una ragazza che, messa con le spalle al muro, impara a combattere per ciò che le è stato affidato – la sua intera famiglia, un’armata di uno  – usando le stesse armi che l’intera città ha sempre rivolto contro di lei: una slavina di inganni e mezze bugie, sotterfugi e provocazioni, sorrisi affilati e sottrazioni ingiustificabili.

Dopotutto, la vita di provincia non è sempre rose e fiori. Polvere, gomma bruciata e un vago aroma di sogni andati a male: oggigiorno, è la stessa aria che si respira un po’ dappertutto, certo… Ma soltanto chi è nato e cresciuto in un piccolo centro urbano ai confini del nulla, al centro del vuoto assoluto, può capire fino a che punto quel caratteristico e desolato senso di squallore esistenziale possa arrivare a intorpidire i tuoi sensi.

Non è facile continuare a credere nella magia, quando tutti intorno a te hanno già gettato la spugna, e sembrano averlo fatto una ventina d’anni prima della tua nascita. Rinunciare del tutto, però? Per certe persone, vorrebbe semplicemente dire strapparsi via un brandello d’anima dal petto.

Opal, la protagonista di “Starling House”, appartiene a quest’ultima categoria. Una giovane donna, cresciuta troppo in fretta, che è stata costretta a dividere gli elementi della sua vita in due grandi elenchi: una lista per le cose di cui ha bisogno, un’altra per quelle che potrebbero renderla felice.

Il primo elenco, da custodire come un vecchio cimelio di famiglia, una mappa da seguire scrupolosamente.
La seconda, da bruciare in uno sfrigolio di braci incandescenti…


“Starling House”: la recensione

Cosa posso dire? Ho amato moltissimo il libro di Alix E. Harrow! Sotto alcuni aspetti, il romanzo mi ha ricordato un po’ la saga di “Blackwatwer” di Michael McDowell.  Da un altro punto di vista, mi ha fatto pensare al delizioso “Gallant” di Victoria Schwab.

Ad ogni modo, l’atmosfera che emana dalle pagine di “Starling House” assume una qualità talmente avvolgente e intossicante da darti l’impressione di trovarti proprio lì, sulle nebbiose strade del Kentucky, assieme ai personaggi.

Con la spada di Damocle dello sfruttamento minerario e dell’inquinamento (dell’ambiente, del corpo, ma, soprattutto, dell’anima…)  che incombe ovunque e su chiunque.

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“Fourth Wing”: la recensione del libro romantasy di Rebecca Yarros


fourth wing recensione - rebecca yarros

La recensione di “Fourth Wing” è rimasta “in caldo” per un sacco di tempo. Adesso che la data d’uscita italiana (7 novembre 2023) è dietro l’angolo, però, direi che è arrivato finalmente il momento di vuotare il sacco: cosa penso dell’attesissimo, chiacchieratissimo, super-popolare romanzo di Rebecca Yarros?

Innanzitutto, parliamoci chiaro: “Fourth Wing” è un pageturner, e chiunque sostenga il contrario… bè, forse farebbe meglio a evitare di appoggiare una mano sulla Bibbia al cospetto di un giudice!

Eppure, sospetto che sarai d’accordo con me: di solito, esiste una bella differenza fra “guilty pleasure” e “miglior libro fantasy del 2023”…  quale che sia, a fine anno, il verdetto dei famosi “Goodreads Choice Awards”!


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La trama

A vent’anni, Violet Sorrengail sta per entrare a far parte del Quadrante degli Scribi: l’obiettivo per cui si è preparata per tutta la vita e che, in teoria, rappresenta la miglior garanzia di ottenere un futuro tranquillo, all’insegna di libri e manuali di storia. Tuttavia, il generale comandante delle forze armate della nazione– una donna a cui Violet è solita riferirsi anche con il nome di “mamma” – è di tutt’altra opinione.

Ed è proprio lei a ordinare alla figlia minore di unirsi alle centinaia di candidati che, ogni anno, si sottomettono a una competizione spietata per entrare a far parte della forza militare d’elite di Navarre: i cavalieri dei draghi.

Ma quando sei più esile di chiunque altro, e il tuo corpo si rifiuta di comportarsi a dovere, la morte è sempre a un tiro di schiocco… soprattutto perché i draghi rifiutano di legarsi agli uomini che considerano “fragili”.

E, nel momento in cui negano loro la propria alleanza, reagiscono anche in una maniera piuttosto scortese: in effetti, li inceneriscono.

Come se non bastasse, i cadetti si sentono in dovere di ammazzare chiunque minacci la stabilità dell’esercito o, più in generale, chiunque commetta l’errore di entrare in competizione con loro. Il resto dei cavalieri? Ucciderebbe Violet per il semplice fatto di essere figlia di sua madre: a partire da Xaden Riorson, il più potente e spietato capo-ala del Quadrante dei Cavalieri.

Se vuole sperare di assistere alla prossima alba, Violet dovrà ricorrere a ogni singola oncia del suo ingegno…

Amici, nemici, amanti. Tutti, al Collegio Militare Basgiath, hanno un piano segreto. Perché, una volta entrato a far parte della scuola, puoi sperare di uscirne soltanto in un modo: da diplomato, o da morto.



“Fourth Wing”: la recensione

Se mai dovessi sentire il bisogno di trovare una conferma all’intrinseca falsità dell’equazione “tomazzo molto lungo = romanzo impegnativo”, ti autorizzo personalmente a usare l’esempio offerto dal romanzo di Rebecca Yarros.

L’edizione americana di “Fourth Wing” (quella che ho letto io) conta quasi 600 pagine; la versione Sperling & Kupfer, se non sbaglio, si aggirerà attorno alle 520: una lunghezza considerevole, per un libro che – acrobatiche scene di sesso a parte – in realtà ha tutte le carte in regola per candidarsi al rango di perfetto prototipo di YA.

Eppure, posso assicurarti che il primo volume della serie “Empyrean” si legge veramente d’un fiato! La scorrevolezza della narrazione, la velocità dell’azione, la familiarità delle avventure, i dialoghi frizzanti… ogni elemento concorre a favorire il fattore “immersione”, rendendo l’esperienza di lettura piacevole e avvincente.

In realtà, ho apprezzato parecchie elementi di questo libro (voglio dire, vogliamo parlare del bellissimo rapporto fra Violet e i draghi?!). Eppure, in questa mia recensione di “Fourth Wing”, sono soprattutto due i punti sui quali mi piacerebbe soffermare l’attenzione: da una parte, la grande forza d’attrazione rappresentata dalla tematica principale e, dall’altra, l’esperta, scaltrissima gestione della componente romantica.

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“City of Nightmares”: la recensione del libro urban fantasy di Rebecca Schaeffer


city of nightmares recensione - Rebecca Schaeffer

Provare a contenere, in una sola recensione di “City of Nightmares”, tutta la folle eccentricità e la geniale inventiva del libro YA di Rebecca Schaeffer: ecco un obiettivo degno della mia lista di “cose impossibili da fare prima di colazione”!

Inizierò l’articolo premettendo che difficilmente ti capiterà di leggere, quest’anno, un romanzo per ragazzi dalle tonalità così esuberanti e particolari. Una storia coloratissima, rutilante e densa di azione, che sembra il frutto di un’unione proibita fra la serie tv “Gotham” e il romanzo “A Deadly Education” di Naomi Novik.

E che pare praticamente implorare per una trasposizione a fumetti


La trama

Ness vive nel terrore più totale. Sin dal giorno in cui sua sorella si è trasformata in un grottesco ragno divora-uomini, dando il via a una scia di massacri per tutta la città, la paura non l’ha più abbandonata.

Neppure adesso che ha diciannove anni e vive da sola a Newham, una delle metropoli più pericolose, sporche e corrotte del globo conosciuto. Paura che qualche altro Incubo possa ucciderla. O paura di fare la stessa fine di sua sorella, abbattuta per strada da una pattuglia di cittadini inferociti…

In realtà, non fa differenza: perché a Newham, la città che non dorme mai, sognare significa svegliarsi trasformati in ciò che si teme di più.

Che questo significhi diventare un Incubo, un essere mostruoso soltanto dal punto di vista dall’aspetto, oppure trasformarsi in una creatura devastata e pronta a sguinzagliare violenza, la sostanza dei fatti non cambia: a Newham, nessuno è veramente al sicuro. Mai.

Ness farebbe qualsiasi cosa per evitare di trasformarsi in un’altra vittima. Perfino trasferirsi presso i cosiddetti Amici dell’Anima Ristorata, un’organizzazione di discutibile fama che potrebbe anche – o forse no – essere una setta di qualche tipo.

Ma, per restare un membro a tutti gli effetti di questa forse-setta, Ness dovrà prima provare le proprie capacità. Peccato che il semplicissimo incarico per cui si era fatta volontaria le esploda improvvisamente in faccia… nel senso più letterale dell’espressione!

Rimasta invischiata nelle imprevedibili conseguenze di un attacco dinamitardo, Ness dovrà allearsi con l’unico altro sopravvissuto – un vampiro che, probabilmente, non aspetta altro che di avere la possibilità di addentarla – e scoprire la sinistra verità che si nasconde dietro l’esplosione.

Perché, forse, gli orrori del suo passato incombono ancora una volta, più vicini di quanto chiunque possa immaginare…



“City of Nightmares”: la recensione

Nelle pagine di ringraziamento, Rebecca Schaeffer spiega ai suoi lettori che “City of Nightmares” è stato un po’ il suo “libro dei miracoli”; quello che, ormai, non si aspettava più di pubblicare.

Questo perché la sua serie di romanzi precedenti, “Market of Monsters”, era andata incontro a un fallimento commerciale talmente clamoroso da mettere seriamente a repentaglio la sopravvivenza della sua carriera.

In effetti, è stato soltanto lo straordinario successo ottenuto dall’adattamento a fumetti del suo “Not Even Bones” (disponibile su Webtoon) a permetterle di ribaltare le carte in tavola e aggiudicarsi una preziosa “seconda opportunità” di rilanciare la sua attività di scrittrice per ragazzi.

L’aneddoto di Rebecca Schaeffer mi ha colpito. Mi ha fatto pensare che ci troviamo sicuramente di fronte a una fase molto particolare nella vita dell’industria editoriale; un momento storico in cui l’onnipresenza sui social conta (quasi) più di qualsiasi altro requisito e raramente l’originalità viene premiata.

Fortunatamente, viviamo anche in un’era che permette agli autori di sfruttare più di un canale per dar voce alla propria creatività. E che offre a questi ultimi un ampio ventaglio di “strade” potenziali per raggiungere l’unico obiettivo che conti davvero: riuscire a trovare il proprio pubblico.

 Dal canto suo, “City of Nightmares” è un romanzo molto, molto divertente. È anche avvincente, buffo e ricco di verve, nonché corredato di quelle tipiche atmosfere da “campy horror” che richiamano un po’ “Buffy: The Vampire Slayer”, un po’ certi spillati a fumetti targati DC e un po’ la serie di “Piccoli Brividi”.

Non esattamente una miscela in grado di rivoluzionare il mercato, certo.

Ma per chi ama il genere?

Un trionfo garantito!


Sconfiggi le tue paure, oppure diventa la tua paura

Come dicevo, l’ambientazione e il concept alla base del libro garantiscono una valanga di risate, brividi e sorprese. Basterebbe già la combinazione di questi due elementi, secondo me, a trasformare “City of Nightmares” in un piccolo gioiello.

Aggiungi al mix una protagonista moralmente ambigua, un paio di tematiche ingiustamente sottovalutate e una serie di dialoghi abbastanza cringe da rendere pienamente giustizia alla giovane età dei personaggi… e capirai il perché del mio entusiasmo!

Dal punto di vista del plot, “City of Nightmares” riesce ad alternare una serie momenti di profondità a dei picchi di assurdità da commedia brillante. Voglio dire, dopotutto la città che presta il titolo all’opera è un posto in cui il sindaco si aggira con uno pteroddattilo al guinzaglio (sentiti pure legittimato a immaginare uno scenario in perfetto stile «Drakaris!») e bande di supereroi mascherati hanno la riprovevole tendenza a spuntare come funghi… soltanto per farsi crivellare di proiettili nel bel mezzo di un’ordinaria giornata lavorativa!

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“The Daughters of Izdihar”: la recensione del libro fantasy di Hadeer Elsbai


The Daughters of Izdihar recensione - Hadeer Elsbai

Una recensione di “The Daughters of Izdihar” scritta “a caldo” sarà anche, nei limiti del possibile, una recensione ponderata ed equilibrata?

Mi piace pensare di sì. In queste ultime ore, ho riflettuto parecchio sul libro di Hadeer Elsbai. Un romanzo fantasy basato su una trama abbastanza circostanziale, niente affatto avvincente. Una storia che si sforza, piuttosto, di basare la propria efficacia sulla dolorosa attualità delle sue tematiche e sulle (esasperate) personalità delle due protagoniste.

A questo punto, però, è lecito domandarsi: con quali risultati?


La trama

Intrappolata in un matrimonio combinato con un uomo che non ama, Nehal sogna soltanto di frequentare la Weaving Academy. Lì, potrà assumere il controllo dei suoi poteri, piegare ogni corso d’acqua alla sua volontà e perseguire un glorioso futuro sul campo di battaglia, all’interno del primo regimento femminile formato all’interno del corpo militare.

 Suo marito, un uomo pacato e taciturno, nel frattempo è innamorato di un’altra donna: Georgina, una libraia poverissima e di umile estrazione sociale.

Anche Georgina ha i suoi segreti. È in grado di controllare l’elemento terra… O, almeno, potrebbe esserlo, se soltanto le donne della sua nazione fossero autorizzate a studiare e ad addestrarsi per imparare a gestire i propri poteri.

La sua unica fonte di consolazione? Gli incontri segreti con un gruppo di attiviste che si fa chiamare “le figlie di Izdihar”. Una cerchia di donne pronte a dare battaglia al Parlamento per assicurare al popolo una nuova Costituzione e il diritto, per tutte le donne del paese, di scegliere i propri rappresentanti.

Nehal e Georgina provengono da due contesti sociali ed economici molto diversi. Eppure, hanno più cose in comune di quanto potrebbe sembrare…

Attratte nell’orbita dell’enigmatica leader del gruppo, Malak Mamdouh, le due donne si lasciano invischiare in una complessa ragnatela fatta di politica, violenza e minacce di guerra. Il tutto mentre lottano per guadagnarsi – e conservare – una durevole libertà.



“The Daughters of Izdihar”: la recensione

Basta leggere pochi capitoli di “The Daughters of Izdihar” per avere una certezza: il libro di Hadeer Elsbai contiene un mix di elementi tratti da una pletora di altri titoli recenti.

I modelli sono tanti, troppi per essere elencati…

Tuttavia, per darti un’idea più precisa, mi limiterò a citare i più palesi: “Le Streghe in Eterno” di Alix Harrow, “Ragazze Elettriche” di Naomi Alderman e “La Guerra dei Papaveri” di R. F. Kuang (quest’ultimo, soprattutto in riferimento alla parte legata all’Accademia e alla tragica figura di Edua Badawi).

Purtroppo, dal mio punto di vista, nessuno di questi riferimenti viene sfruttato con il massimo della pertinenza possibile.

Il problema è che “The Daughters of Izdihar”, sulla carta romanzo fantastico per adulti, è in realtà uno YA incline a prendersi parecchio sul serio. L’età dei personaggi conta poco, a fronte di una narrazione che sceglie quasi sempre di “raccontare”, nella maniera più frettolosa possibile, tutti i dettagli potenzialmente interessanti relativi all’ambientazione, al sistema magico e alla caratterizzazione di villain ed eroi.

In un certo senso, è come se la discussione inerente alla condizione femminile (con conseguente lotta al patriarcato) assorbisse tutta l’attenzione dell’autrice, impedendole di concentrarsi su altri aspetti. Soprattutto durante i primi due atti, la foga energica delle argomentazioni tende a sbilanciare il ritmo e a gonfiare i conflitti oltre misura.

Quali sono le conseguenze?

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“Mortal Follies”: la recensione del libro Regency-fantastico di Alexis Hall


mortal follies recensione - alexis hall

La recensione di “Mortal Follies” arriva sul blog per spezzare – finalmente – la lunga pausa estiva!

Un’interruzione non voluta, ma di cui, purtroppo, avvertivo disperatamente il bisogno. Soprattutto considerando le due o tre rivoluzioni che hanno alterato il corso delle mie giornate…

Ma bando alle ciance, e torniamo subito all’argomento del giorno: il diabolico, irriverente, spassosissimo libro Regency di Alexis Hall, già autore del famoso “Boyfriend Material” (edito in Italia da Mondadori).

Il suo “Mortal Follies” merita tutte le attenzioni del mondo: stiamo parlando, infatti, di un travolgente concentrato di eccentricità, originalità, umorismo e seduzione. In effetti… posso confessarlo? Non mi aspettavo di riuscire ad apprezzare così tanto lo stile di questo autore, i suoi personaggi bislacchi e le sue effervescenti ambientazioni.

Ma, in questo caso, posso confermarti che la combo “romcom in costume + elemento fantastico” si è rivelata una vera manna dal cielo…


La trama

E’ il 1814 e l’ingresso in società di Miss Maelys Mitchelmore sta andando incontro a un impedimento alquanto particolare: una maledizione, nel vero e proprio senso della parola!

All’inizio, il maleficio assume una forma abbastanza innocua, limitandosi a disintegrare il suo vestito nel corso di una serata danzante. Uno scandalo che, in realtà, la povera Maelys riesce a evitare per il rotto della cuffia.

Eppure, ben presto, un’escalation di incidenti costringe la ragazza a fare i conti con il problema. Che potrebbe, in effetti, essere molto più serio di quello che sembra.

Per spezzare il sortilegio, Maelys dovrà quindi chiedere l’aiuto di una delle persone più ricche e indesiderabili agli occhi della società: la cupa e disincantata lady Georgiana Landrake, che in molti ritengono responsabile dell’inspiegabile sterminio della sua famiglia.

Se uno dovesse dar retta ai pettegolezzi, si potrebbe anche credere che lady Georgiana sia una sorta di incantatrice malvagia.

Ma poi… bè.

Un’incantatrice malvagia potrebbe essere esattamente quello di cui Miss Mitchelmore ha bisogno…



“Mortal Follies”: la recensione

La prima cosa da sapere a proposito del libro di Alexis Hall: ci troviamo alle prese con una storia che si iscrive nel novero del romance, in primis, e in quello del fantastico soltanto in via secondaria (elemento che, in realtà, riecheggia le mie considerazioni a proposito della difficoltà strutturali di considerare il fantasy come un genere a se stante, piuttosto che una semplice attribuzione inerente al tipo di ambientazione prescelta…).

La trama di “Mortal Follies” ruota attorno al concetto di “maledizione”, nonché ai temi – piuttosto caratteristici – dei capricci del fato, dei pregiudizi sociali e dell’amore come forza (probabilmente) salvifica.

E’ anche corredata di innumerevoli scene speziate, e da una voce narrante sardonica e squisitamente dispettosa: quella dell’hobgoblin Robin, un fae che, in termini di ironia e sboccata tendenza al salace commentario sociale, pare quasi un diretto discendente del Bartimeus di Jonathan Stroud.


Il racconto nel racconto

Cronista nell’anima, narrastorie per indole e professione, Robin segue la temeraria e trafelata Miss Mitchelmore un po’ dappertutto. Attratto dal caos che la giovane dama lascia sulla sua scia come, si potrebbe dire, la proverbiale falena attratta dalla luce del fuoco.

Nel frattempo, attorno alla nostra eroina si raduna un’improbabile quanto scatenato terzetto di eroi: la conturbante – e misteriosa – lady Georgiana Landrake, sedicente parricida e sterminatrice di fratelli; l’azzimato gentiluomo John Caesar, dalle frequentazioni quanto mai variegate; e la squinternata lady Lysistrata Bickles, una sorta di divertentissima Phoebe Buffay in corsetto e crinoline.

Nel corso del suo libro, Alexis Hall chiama a raccolta creature provenienti da ogni forma di mitologia immaginabile. Sguinzagliando fra le sue pagine, di fatto, un serraglio di personaggi leggendari: kelpies e streghe, antichissime divinità pagane e sacerdotesse voodoo, Oberon e Titania, e chi più ne ha, più ne metta.

Stranamente, in tutto questo guazzabuglio di energie, è il fattore dell’entusiasmo a trionfare sul disordine. Ne consegue una lettura che rappresenta, a tutti gli effetti, esattamente quella sorta di innocente e giocoso “passatempo proibito” che l’immagine di copertina riesce a evocare…

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“The Lake House”: la recensione del survival horror di Sarah Beth Durst


The Lake House recensione - libro - Sarah Beth Durst

Usare la recensione di “The Lake House” per curare un brutto caso di nostalgia da “Yellowjackets”: si può?

Bè, diciamo che il libro di Sarah Beth Durst ce la mette (quasi) tutta per ricreare quel caratteristico senso di suspense, teen drama e survival horror cui siamo così affezionati. Ovviamente, al di là delle apparenze, i due titoli non sono neanche remotamente paragonabili: “The Lake House” è uno YA che gioca sempre secondo le regole (buonismo e moralismo edificante piovono a catinelle…) e non accetta di scendere a patti con la natura dark degli eventi che narra neanche per un secondo.

Sta a “Yellowjackets” come “Wilder Girls” di Rory Power sta ad “Annientamento” di Jeff VanDermeer, per intenderci.

Ma la cover è un pezzo d’arte e il testo riesce, se non altro, a introdurre una serie di  novità che gli permettono di distinguersi dalla massa…


La trama

Claire è cresciuta controllando le serrature delle porte almeno tre volte. Contando i passi. Lacerandosi nel dubbio e nell’incertezza a ogni decisione. È fatta così: anche se i suoi tipici trip alla “peggior scenario possibile“, poi, difficilmente arrivano ad avverarsi.

Fino a quando i suoi genitori non la costringono a partecipare a un campo estivo isolato in mezzo ai boschi. Non appena mette piede nella foresta, infatti, Claire si ritrova a contemplare i resti carbonizzati di una baita – e non ci sono sopravvissuti, a eccezione di se stessa e di altre due ritardatarie: Reyva e Mariana.

Quando le tre ragazze scoprono il corpo di una donna nei boschi, realizzano che l’incendio non è avvenuto per caso. Qualcuno, qualcosa, sta dando loro la caccia. Qualcosa che si nasconde nell’ombra.

Qualcosa che si rifiuta di lasciarle andare.



“The Lake House”: la recensione

“The Lake House” ha un buon ritmo e ruota attorno a una serie di tematiche intriganti.

Nel corso degli ultimi due o tre anni, tante autrici di romanzi per ragazzi hanno iniziato a introdurre l’argomento dei disturbi d’ansia. Una rappresentazione importante, considerando quanti di noi hanno sofferto (o soffrono tutt’ora…) di problematiche quali attacchi di panico, DOC e compagnia bella.

Ad esempio, nel romanticissimo “All the Dead Lie Down“, Kyrie McCauley offre un’ottima testimonianza di questa nuova tendenza, consegnandoci il ritratto di una magnifica eroina gotica contemporanea: volitiva e coraggiosa, sì, ma anche assediata da una batteria di fragilità e incertezze legate al nostro stile di vita moderno.

Nella stessa categoria si inscrive anche Claire, la nevrotica protagonista di “The Lake House”. Una ragazza in gamba e piena di risorse, costretta a fare i conti con un’ansia destabilizzante e una patologica tendenza a immaginare sempre lo scenario più apocalittico possibile.

Uno stato mentale non proprio ideale per ritrovarsi bloccati in una landa selvaggia, circondati dai resti carbonizzati di un incendio e braccati dalle tempeste, per giunta senza viveri o un riparo sulla testa.

(Ammesso che una condizione mentale ideale per fronteggiare una cosa del genere ESISTA, si capisce!).

Claire è un personaggio per il quale è molto facile ritrovarsi a parteggiare. Tanto più che le sue reazioni e le sue intuizioni, mentre lotta per sopravvivere nella natura incontaminata, suonano sempre molto credibili e coinvolgenti.

Le sue due compagne di sventura, purtroppo, risultano più stereotipate e difficili da amare. Più che altro perché sembrano uscite dall’intensa sessione di daydreaming di una ragazzina solitaria intenta a fantasticare sulle qualità ideali della “bestie” perfetta.

Veste sempre di nero e indossa gli anfibi, ma nasconde un cuore grande quanto il Texas? L’identikit di Reyva.
Una cheerleader sempre pronta a prendersi cura degli altri, un'”all american girl” con la passione segreta per i motori e i ragazzi con l’aria da cucciolo bastonato? L’identikit di Mariana.

Eventuali difetti dell’una o dell’altra?
Non pervenuti, ovviamente.


Il potere del Trio

Ma l’errore principale di “The Lake House” consiste, forse, nel provare a giocare con un sottile senso di ambiguità e mistero che, in effetti, nessuna parte della narrazione sembra in grado di sostenere a lungo.

Certo, ci sono dei plot twist.
E riescono a coglierti alla sprovvista… soprattutto perché non si sforzano di avere molto senso, e si limitano a rubacchiare qualche trovata di qua e di là.

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“The Society for Soulless Girls”: la recensione del dark academia di Laura Steven


the society for soulless girls recensione - laura steven

Dedichiamo l’articolo di oggi alla recensione di “The Society for Soulless Girls”, di Laura Steven.

Un divertente dark academia in salsa YA, che si presta a incarnare – almeno in parte – un retelling de “Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e Mr Hyde” di Robert Louis Stevenson.

Con tanto di declinazione saffica e una sana, giustificatissima, irriverente dose di rabbia femminile


La trama

Dieci anni fa, quattro studentesse hanno perso la vita negli infami omicidi della Torre Nord, presso l’esclusivo collegio artistico Carvell.

Da quel giorno, la Carvell è stata costretta a chiudere i battenti.

Ma, dal momento niente è destinato a durare per sempre, adesso l’amministrazione ha deciso di riaprire le porte, e l’impavida studentessa Lottie è determinata a scoprire la verità che si nasconde dietro quegli atti criminosi.

Quando la sua compagna di stanza, Alice, si imbatte in un sinistro rituale in grado di dilaniare l’anima di una persona e di risvegliare i suoi istinti più bestiali, la Torre Nord reclama un’altra vittima.

Riuscirà Lottie a svelare i misteri della scuola, e a evitare che un passato così denso di ombre e di sangue possa ripetersi?

E Alice, potrà mai invertire il rituale, prima che il suo mostruoso alter ego la consumi completamente?

E sarà mai possibile, per tutte e due, smettere di flirtare impunemente per quindici secondi filati, e riuscire effettivamente a combinare una qualsiasi di queste cose?!



“The Society for Soulless Girls”: la recensione

Ho iniziato a leggere “The Society for Soulless Girls” senza grandi aspettative.

Non posso più negarlo: le parole “dark academia”, ormai, tendono a evocare nella mia mente soltanto immagini di polverose biblioteche dalle tonalità color seppia e di piagnucolosi ragazzini in toga segretamente innamorati del proprio migliore amico (grrr… azie, Rebecca Kuang!).

Dal momento che non ho ancora imparato a rinunciare a un libro gotico con componente f/f, ho deciso che avrei comunque concesso un’opportunità al romanzo della Steven.

Per appurare che il suo “The Society for Soulless Girls” non ha nulla a che spartire con questi elementi così temuti. E che i termini “polemico” e “lamentoso” non rientrano assolutamente nel novero degli aggettivi con cui potrebbe essere descritto.

Una felice scoperta, quindi, che ha avuto il potere di scaraventarmi fra le pagine di una storia grintosa, dark, ben strutturata e scritta con intelligenza.

Una narrazione ricca di verve e di macabro umorismo nero, quella della nostra Laura Steven. Corredata, fra l’altro, da una frizzante vena di nostalgia Anni Novanta e da un ritmo che tende a incagliarsi giusto un po’ in alcuni punti.

E se è vero – come è vero – che gli elementi ispirati al già citato classico della letteratura ottocentesca sono così sottili da rasentare quasi una pura eccentricità, l’originalità della storia riesce a livellare queste apparenti discrepanze con invidiabile disinvoltura.

E cos’è che tiene insieme così bene tutti questi tasselli del racconto?

Bè, sicuramente le tematiche.

Ribellione, lotta al patriarcato e repressione della rabbia si collocano in pole position. Anche perché, per citare l’autrice: «i tempi sembrano maturi, a questo punto, per parlare della dualità della natura umana anche dal punto di vista femminile

L’inquietante immaginario della Steven, dal canto suo, risulta squisitamente compatibile con questo obiettivo. E, già che ci sono, porrei l’accento anche sulla capacità dell’autrice di restare continuamente “sul pezzo”, senza scadere nella facile retorica o nella semplice banalità da pubblicità progresso tipica di altri autori.


Love your monster

Sull’altro piatto della bilancia, ci confrontiamo, invece, con due eroine gradevoli – ma tutt’altro che indimenticabili – e con un trope romantico (l’immortale “grumpyXsunshine”) che avrebbe potuto ambire a qualcosa di più.

Ho letto da qualche parte che, in occasione dell’imminente uscita USA di “The Society for the Soulless Girls”, Laura Steven sottoporrà il testo a un intenso giro di revisione. L’editing sarà finalizzato soprattutto al miglioramento dell’elemento romance e della qualità dei dialoghi (leggi: banter).

Un’ottima notizia, per quanto mi riguarda.

Per carità, Lottie e Alice sono due personaggi abbastanza “shippabili” così come sono…

Ma non c’è dubbio: l’aggiunto di scene e momenti “particolari” fra di loro potrebbe portare a dei grandi benefici, soprattutto dal punto di vista dello sviluppo dei rispettivi archi narrativi.


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