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“Extraordinary”: 5 cose che uno scrittore di libri new adult può imparare guardando la prima stagione


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La prima stagione di “Extraordinary” è stata la mia serie tv-rivelazione di gennaio.

A mio avviso, infatti, l’incredibile qualità della sceneggiatura – fresca, graffiante, irriverente… totalmente fuori di testa! – basta e avanza a compensare tutti i suoi (piccoli) difetti a livello tecnico e recitativo.

La trama dello show distribuito su Disney+ verte intorno alle tragicomiche disavventure quotidiane di Jen (Máiréad Tyers), uno dei pochi esseri umani privi di superpoteri in un mondo in cui persino il postino, o la tua amichevole fornaia di quartiere, avrebbe le carte in regola per presentare domanda d’assunzione presso il locale team degli Avengers.

Come saprai, non è la prima volta che la Disney decide di affrontare il tema supereroistico dal punto di vista dell’”escluso” (coff coff… “Encanto”… si schiarisce la voce…).

Eppure, dammi retta…

Sulla piattaforma di Topolino, non hai mai visto nulla di remotamente simile a “Extraordinary”! Un coming-of-age arguto e dissacrante, sulla scia di folli show televisivi come “Fleabag” o “The Flight Attendant”.

E se sei uno scrittore alle prime armi…

Assicurati di guardare la serie tv creata da Erin Moran almeno due volte, e in lingua originale. Da uno show come questo, fidati di me, c’è sempre e solo da imparare…


1. Vedi alla voce “drama queen”: ovvero, come scrivere un personaggio femminile forte, ma totalmente fuori controllo

Come dicevo, ritengo la sceneggiatura di “Extraordinary” estremamente brillante; a partire dal modo in cui sceglie di caratterizzare i suoi personaggi e, in modo particolare, la sua protagonista, Jen.

Un’antieroina disastrosa, anche a voler arrotondare la stima per difetto. Un autentico trainwreck, un riepilogo ambulante di contraddizioni, difetti e nevrosi tipici dell’età contemporanea.

All’inizio di questa prima stagione, Jen ha un carattere orrendo, un modo di fare destinato a ispirare nello spettatore tanto imbarazzo e fastidio, quanta ineluttabile empatia.

Per non parlare della sua marcata inclinazione all’autolesionismo e allo zerbinaggio compulsivo, o della sua all’incredibile capacità di stringere legami inutilmente complicati con chiunque le capiti a tiro.

Certo: ha grinta da vendere, Jen, e un singolare, goliardico spirito dell’umorismo metropolitano.  E poi, vuole davvero bene ai suoi amici, anche se non sempre è in grado di dimostrarlo.

Ma Jen è anche un’imbecille patentata, piena di complessi e di paure infantili che le rendono la vita un inferno. Cose che la spaventano e che la spingono ad agire d’impulso, commettendo gli sbagli più catastrofici che tu possa immaginare.

Insomma, per farla breve: Jen – per quanto a tratti possa risultare ridicola, antipatica, egocentrica, perfino odiosa – è un essere umano a tutto tondo, l’incarnazione stessa del concetto di ANTI-Mary-Sue.

Di più: è una donna dei giorni nostri, una sorta di “specchio” deformante in grado di restituirci un’’immagine ingigantita, ma perfetta, di tutti i nostri più grandi difetti.

Lontana anni luce da ogni stereotipo di genere, insomma.

E, perciò, totalmente irresistibile.


2. Come porre le basi per un solido arco trasformativo del personaggio

Ricordi quando abbiamo parlato dei prerequisiti necessari allo sviluppo di un buon arco trasformativo del personaggio?

Da questo punto di vista, la protagonista di “Extraordinary” non si fa mancare assolutamente nulla.

Jen, infatti, può contare su:

  • Una persistente Bugia che l’affligge sin dai tempi dell’adolescenza (la certezza strisciante di valere poco e niente, a causa della sua mancanza di superpoteri);
  • Una Ferita Emotiva contenuta nel suo background (la spiccata e implacabile preferenza dimostrata da sua madre nei confronti di sua sorella minore, Andy);
  • Un Oggetto del Desiderio superficiale, in grado di alimentare e “mandare avanti” la trama di questa prima stagione (tentare in ogni modo di sbloccare i suoi poteri latenti. Jen, infatti, è convinta che trasformarsi in un super-donna le permetterà di raddrizzare il corso della sua vita);
  •  Una Verità capace di ribaltare la Bugia (che uno abbia la superforza o la capacità di riavvolgere il tempo, o nessuna dote speciale in assoluto, la sostanza non cambia: la vita di ognuno di noi è una specie di farsa grottesca, pronta a farci ridere o piangere a seconda della prospettiva. Imparare a perdonare e a voler bene – agli altri, ma prima di tutto a noi stessi – è l’unico modo per cavarsela).

Mi segui?

Per passare dalla Bugia alla Verità, Jen dovrà compiere innumerevoli passi falsi e subire penose batoste.

Ma sarà proprio la sua capacità di rialzarsi dopo ogni sconfitta, in ultima analisi, a rendercela così cara e vicina (per approfondire l’argomento, ti rimando all’articolo “Come scrivere un protagonista indimenticabile: dalla “ferita emotiva” alla scoperta della propria verità“).

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“Omicidio nel West End”: 5 cose che uno scrittore di gialli può imparare guardando il film di Tom George


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Omicidio nel West End” (“See How They Run”, 2022) è approdato su Disney+ da poco, per la gioia di ogni fan del giallo in generale, e delle pièce di Agatha Christie in particolare.

Se ti diletti nell’arte della scrittura di murder mistery e non l’hai ancora visto, ti consiglio caldamente di rimediare.

Difficile considerare il film un capolavoro della settima arte, intendiamoci. Ma la sceneggiatura è senz’altro in grado di vantare un paio di momenti brillanti e una serie di colpi di scena esilaranti. Non credo proprio che avrai motivo di restare deluso, o rimpiangere il tempo speso per la visione.

Anche perché – ormai dovremmo saperlo bene – è sempre possibile imparare ALMENO cinque preziose lezioni di storytelling da qualsiasi libro letto, da ogni film o serie tv che vediamo.

Che cosa ne pensi, allora? Sei pronto a scoprire tutto ciò “Omicidio nel West End” potrebbe insegnarci?


1. Il sottogenere del “buddy cop” resta, oggi come in passato, un’ottima ricetta per il successo

Gran parte dell’empatia che lo spettatore di “Omicidio nel West End” arriva a provare nei confronti dei personaggi, passa attraverso il legame che comincia pian piano a svilupparsi fra i membri della «strana coppia» di investigatori interpretati da Sam Rockwell e Saoirse Ronan.

Due buffi personaggi (ma anche tragici, a loro modo…), che rappresentano una serie di valori e atteggiamenti completamente agli antipodi: lui cinico, svogliato, sbevazzone e vagamente imbolsito; lei zelante, ottimista, goffa e fin troppo pronta a “scattare” (soprattutto verso un sacco di conclusioni improbabili).

Le interazioni fra questi due personaggi, così riconoscibili e “familiari” per il grande pubblico (eppure, al tempo stesso, così rassicuranti, così piacevoli, così umani….) permettono l’inserimento di un gran numero di siparietti comici.

Contemporaneamente, però, aprono anche la strada per una serie di dialoghi che ci permettono di sbirciare nella sfera privata dei due detective e di intuire la profonda vulnerabilità (e l’inesprimibile malinconia) che, in fondo, incarna un po’ l’essenza di entrambi.

Aumentando, di fatto, le probabilità di riuscire a innescare un’autentica connessione emotiva fra il pubblico e l’opera.

Dopotutto, c’è un motivo, se quello del “buddy cop” è sempre stato uno dei sottogeneri più popolari e frequentati.

Stiamo parlando di un “modello” che affonda le radici nel trope universale delle personalità opposte che si attraggono (anche solo in senso amicale). Uno strumento potentissimo, a cui non dovresti avere paura di ricorrere, nel caso in cui la natura specifica dell’intreccio a cui stai lavorando ne preveda l’occasione.

Capisci cosa intendo dire, vero?

Prova a pensare ai migliori film “buddy cop” che tu abbia mai visto: “Point Break”, “Bady Boys”, “Corpi da Reato”, Zootropolis”, “Rush Hour”, “Hot Fuzz”…

Prova a farci caso: di tutti questi titoli, quali sono gli elementi che ti sono rimasti nel cuore? I minuziosi dettagli dell’intreccio, magari?

Oppure l’eccentrico, spassoso, irresistibile rapporto a base di amore fraterno, battibecchi e rivalità che teneva insieme i due protagonisti?

Certo, esistono anche buddy cop terrificanti!

Day Shift”, il mediocre urban fantasy di Netflix con Jamie Foxx e Dave Franco, ne rappresenta una delle prove più recenti.

Ma ti assicuro che il problema, in quel caso, risiede soltanto nella povertà di esecuzione.

La ricetta, dal canto suo, resta perfettamente valida.


2. Sfondare la quarta parete va bene… se sai come farlo!

In almeno un’occasione, un personaggio di “Omicidio nel West End” si rivolge direttamente al pubblico, infrangendo quella che, in gergo cinematografico, prende spesso il nome di “quarta parete”.

Il suo modo di fare, così giocoso e cospiratorio, risulta sicuramente molto accattivante. Rappresenta anche, peraltro, un richiamo diretto al finale dell’opera teatrale “Trappola per Topi” di Agatha Christie.

Si tratta di un effetto piuttosto simpatico ed efficace, nessun dubbio al riguardo. Ti avverto, però: cercare di sfondare la quarta parete può trasformarsi in un’arma a doppio taglio nel giro di un microsecondo.

Narratori più esperti di me e di te ci sono cascati, e corre voce che l’eco del tonfo che hanno fatto echeggi ancora nell’urlo del vento, nel corso delle più nere notti d’inverno.

Perciò,  se sei un autore alle primissime armi, ti sconsiglio vivamente di tuffarti a testa bassa in questa direzione: anziché raggiungere l’effetto sperato, potresti asfissiare la sospensione dell’incredulità del tuo lettore con tutta l’allegra incoscienza di uno sterminatore di topi che fischietta allontanandosi dalla scena del crimine.


3. Come ti uso (e perculo) la tecnica del foreshadowning

Più avanti, dedicheremo senz’altro un articolo più approfondito all’uso del foreshadowing, un meccanismo narrativo che permette all’autore di suscitare un elettrizzante (quanto inconscio, nella maggior parte dei casi…) senso di anticipazione.

Per adesso, ti esorto semplicemente ad analizzare il modo in cui la sceneggiatura di “Omicidio nel West End” riesce a prenderci tutti per il naso, semplicemente ricorrendo a questa tecnica… nel modo più sfacciato e provocatorio possibile!

Mi sto riferendo, ovviamente, alla scena dello storyboard escogitato dallo sgradevole regista Köpernick.

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“Cyrano”: 5 cose che uno scrittore di romance può imparare guardando il film di Joe Wright


cyrano - banner del film prime video

Il film diretto da Joe Wright è il miglior adattamento di “Cyrano” che io abbia mai visto.

Inutile girarci intorno.

Un musical in costume romantico, tragico e prorompente, incentrato sulla forza incontrastabile delle passioni umane.

È vero: le parti musicali non si rivelano sempre all’altezza della messa in scena. Alcuni pezzi sono stupendi, mentre altri… ehm, usiamo un eufemismo, e descriviamoli pure come “semplicemente orecchiabili”.

Ma Peter Dinklage, nei panni di Cyrano, ci offre forse la migliore interpretazione della sua carriera!

La sua eloquente espressività, la sua profonda voce baritonale, i suoi gesti precisi, solenni e intrisi di struggimento… È soprattutto grazie al talento, all’urgenza e alla travolgente passione sfoggiati dall’attore de “Il Trono di Spade”, che l’opera di Wright riesce ad acquistare una potenza e un vigore straordinari!

Eppure, per come la vedo io, anche la sceneggiatura di “Cyrano” (firmata da Erica Schmidt) potrebbe essere in grado di offrire una lezione o due agli aspiranti autori di libri romance.

Curioso/a di scoprire quali?

Andiamo a scoprirlo insieme…


1. Come introdurre il protagonista di una storia

Ricordi cosa abbiamo detto a proposito dell’importanza vitale del protagonista di una storia?

L’eroe non è un personaggio come gli altri. Attraverso i suoi occhi, il lettore (o lo spettatore, come in questo caso…) avrà infatti la possibilità di vivere mille avventure; tutto ciò che, nel corso della sua vita reale, probabilmente (o per fortuna) non riuscirà mai a sperimentare in prima persona.

Che cosa implica questo?

Che nessun protagonista al mondo dovrebbe mai “accontentarsi” di un’introduzione blanda o banale, a prescindere dalla sua caratterizzazione e da quale che sia il principio del suo arco trasformativo.

Proviamo a considerare la scena del film in cui Cyrano appare per la prima volta.

All’inizio, non udiamo altro che la voce profonda, ironica e tonante di Dinklage. Eppure, bastano un paio di battute sferzanti e argute a scapito del ridicolo Montfleury, ed ecco che lo spettatore ha già “drizzato le antenne”!

Una certezza assoluta lo invade: quello che sta per entrare in scena è un personaggio speciale, non certo un cicisbeo come gli altri!

Dopo aver rimesso il pomposo attore al suo posto, Cyrano accetta quindi di battersi a duello con un uomo che ha cercato di infangare il suo onore.

È l’avversario a lanciare il guanto della sfida, bada, non Cyrano: ai fini della trama, è importantissimo che il pubblico capisca subito che il protagonista è un uomo arguto e capace, ma non rancoroso o privo della capacità di lasciarsi scivolare gli insulti addosso.

Cosa accade, dunque?

Cyrano combatte contro lo spadaccino nemico, e… vince, senza mai perdere la propria compostezza. Dimostrando immediatamente la sua prodezza e la propria capacità di provare compassione (hai presente le parole gentili che sussurra all’orecchio dell’avversario moribondo, il modo tenero e triste in cui adagia il suo corpo sul palco?).

Nel frattempo, da uno spazio soprelevato, l’amata Roxanne (Haley Bennett) osserva la scena; Cyrano non sembra in grado di smettere di lanciare occhiate infatuate e circospette nella sua direzione…

Quindi, riassumendo, vedi quante informazioni sul contro del protagonista siamo stati in grado di assimilare attraverso una singola scena?

Cinque minuti dopo aver fatto la sua conoscenza, sappiamo già che Cyrano è:

  • un’artista della parola, dotato di arguzia e di un incandescente senso dell’ironia
  • un abilissimo combattente
  • un uomo onorevole
  • un individuo dotato di grande umanità
  • terribilmente innamorato di Roxanne, e del tutto impacciato in campo sentimentale.

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“L’Isola del Dottor Moreau”: 5 cose che uno scrittore può imparare leggendo il libro di Wells


isola del dottor moreau - analisi libro h g wells

Non esagero quando dico che l’edizione Fanucci de “L’Isola del Dottor Moreau” ha fatto parte della mia TBR per anni.

Dopotutto, dello stesso autore avevo già letto “La Macchina del Tempo”, libro di cui avevo senz’altro apprezzato la visionarietà e la sottile ironia di fondo.

Ma, allora, perché mi sono ritrovata a esitare così tanto?

Bè…

Il problema è che ho una mente iperattiva e facilmente incline alle distrazioni; per cui, forse non ti sorprenderà sapere che sono le nuove uscite, per la maggior parte del tempo, a monopolizzare il mio tempo!

Eppure, paradossalmente, stavolta si dà il caso che sia stata proprio questa mia (comprensibilissima) fascinazione per i titoli appena sbarcati in libreria a spingermi a recuperare il libro di H. G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1896.

Dopotutto, a fine luglio è uscita l’edizione in lingua originale del retelling “The Daughter Of Doctor Moreau di Silvia Moreno-Garcia; l’affermata autrice di “Mexican Gothic” e “Gods of Jade and Shadow”, due romanzi affascinanti e ricchi di seducenti suggestioni morbose.

Per “prepararmi” alla lettura di questo nuovo lavoro, cos’altro avrei potuto fare, se non decidermi a a iniziare la mia bella copia de “L’Isola del Dottor Moreau”?

Ti confermo subito che si è trattato della scelta giusta. In primo luogo, perché “L’Isola del Dottor Moreau” mi ha garantito un’esperienza di lettura insolita, incisiva e ricca di spunti di riflessione.

Ma anche perché il classico di Wells mi ha permesso di assimilare cinque preziose lezioni di scrittura creativa; le stesse che ho intenzione di condividere con te, nel corso di questo articolo…


Spoiler alert!

1.Come usare il “body horror” per richiamare nel lettore un sacrosanto terrore della propria mortalità

Fra le righe della trama de “L’Isola del Dottor Moreau”, si nascondono parecchie metafore, di ordine tanto sociale, quanto metafisico, religioso e perfino esistenziale.

Eppure, su un livello profondo – un livello istintivo –  la prima reazione che la cronaca degli atroci esperimenti compiuti dal protagonista del libro è in grado di suscitare, non ha nulla a che vedere con i cosiddetti sentimenti “elevati” del genere umano.

Compassione, sdegno, etica, raziocinio…

È come se gli eloquenti plot twist del libro di H. G. Wells costringessero tutte queste cose ad “arretrare” nella mente del lettore, per lasciare campo libero a emozioni di natura assai più prosaica e ancestrale: paura. Rabbia. Sgomento. Orrore.

Per scagliarlo, insomma, in una condizione psicologia non troppo dissimile da quella sperimentata dalle tormentate creature del dottor Moreau.

Tieni presente che il body horror è il sottogenere che si propone di raccontare il senso di orrore, assoluto e incontrovertibile, che si prova al cospetto di una violazione del corpo.

Un terrore universale, intriso di sofferenza e non privo di certe particolari connotazioni grottesche, che riesce a estendere la sua fosca influenza sugli abitanti di ogni epoca, ceto e cultura.

La paura del dolore fisico, in fondo, è una delle pochissime cose in grado di accomunarci tutti.

Ed ecco perché NESSUNO sarà mai in grado di restare indifferente di fronte alla raccapricciante storia dello scienziato pazzo Moreau…

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“Lightyear”: 5 cose che uno scrittore può imparare guardando il film Disney/Pixar


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Un bravo narratore sa che, dalla Pixar, c’è sempre qualcosa da imparare.

Ebbene sì: perfino quando il loro ultimo film si rivela un clamoroso flop commerciale!

Dopotutto, pochissime case di produzione cinematografiche sono state in grado di raggiungere, così velocemente, degli standard qualitativi generali così elevati.

Lightyear” è un film che ho trovato…interessante, almeno dal punto di vista della costruzione del protagonista e delle (intrepide) scelte narrative portate avanti dalla trama.

Una pellicola tutt’altro che perfetta, e sicuramente non all’altezza di capolavori come “Inside Out”, “Up” o “Soul”… ma per lo più brillante, anche se solo a tratti, e deliziosamente audace nella sua natura di “ibrido” cinematografico semi-sperimentale.

Ma quali preziose lezioni potrebbe imparare, uno scrittore, da una minuziosa analisi del plot e dei personaggi di “Lightyear”?

Andiamo a scoprirlo insieme! 😀


Spoiler alert!

1. Mai sottovalutare il potere del deuteragonista!

Sai che cos’è un deuteragonista?

La parola deriva dal greco: nel gergo teatrale, infatti, il termine stava a indicare “il secondo attore”.

Un deuteragonista è esattamente questo. Per citare TVTrope:

«Si tratta della seconda persona a cui ruota attorno uno show [o un romanzo, o un film…], un personaggio le cui azioni guidano la trama tanto quelle del protagoniste.»

Se ci fai caso, in “Toy Story”, Buzz non è l’eroe principale del film: quel ruolo spetta a Woody!

Ma se c’è una cosa che l’esistenza stessa del film “Lightyear” è in grado di dimostrare, è che un deuteragonista racchiude sempre in sé un potenziale narrativo tale da rivaleggiare con quello del protagonista.

E, in alcuni casi, addirittura quello di conquistarsi il diritto a una propria rocambolesca e toccante origin story!

Altri popolari esempi di deuteragonista che, all’occorrenza, si sono rivelati tranquillamente in grado di rubare la scena al protagonista?

  • Skye nella serie tv “Agents of S.H.I.E.L.D.”.
  • Willy Wonka nel film “La Fabbrica di Cioccolato”.
  • Sarah Lance nella prima stagione dello show “Legends of Tomorrow”.
  • Kelsier nel romanzo “Mistborn: L’Ultimo Impero”.

Cosa ci suggerisce tutto questo?

Se deciderai di inserire nel tuo romanzo un “secondo uomo” o “una seconda donna”, che si tratti di un aiutante, di un villain o di un love interest, dovrai stare molto attento a non sottovalutare il suo ruolo.

Se non fosse stato per Sheldon Cooper, credi davvero che la sitcom “The Big Bang Theory” sarebbe riuscita a diventare un fenomeno popolare? 😉

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